lunedì 31 maggio 2010

Mettiamola così

Avevo scritto un post in cui ricordavo un amico, per cui rimpiango di non aver potuto né voluto fare di più.
Questo amico è morto 8 anni fa, e il modo ancor m'offende.
Visto il mondo in cui ci tocca vivere, il fatto che un giovane sensibile e di grande talento si uccida mi sembra un enorme spreco.
Da madre, inoltre, sono particolarmente inquietata dal fatto che l'essere sano, amato, bello, ricco e con un grande talento non sia una protezione sufficiente contro il dolore.
Se questo post aveva offeso qualcuno o se poteva sembrare una presa di posizione contro il suicidio o una negazione che la depressione sia una malattia, mi dispiace, perché non era assolutamente questa la mia intenzione.
Se a qualcuno è sembrato che volessi gettare discredito su un ragazzo che si è ucciso o speculare sul dolore dei suoi cari, assolutamente quel qualcuno è fuori strada: ho solo provato a immedesimarmi nel dolore che proverei se tra 30 anni, tornando a casa, trovassi Ettore suicida sul nostro divano. E ho solo provato a dire che, se un suicida avesse la capacità di immaginare quel dolore, non penserebbe di fare un piacere ai suoi cari togliendosi di mezzo.
Se ho usato termini che possono aver urtato i mancati o aspiranti suicidi o i loro cari, è solo perché mi parevano appropriati al caso, dal momento che conosco la cultura di cui si compiaceva il mio amico e in generale tutta l'esaltazione romantica del gesto. Poi magari invece ha agito così perché gli è sembrato il modo più sicuro o indolore o perché sperava che qualcuno se ne accorgesse e lo fermasse o perché ci vedeva una simbologia ancora diversa da quella che immagino io.
Ringrazio chi è intervenuto con toni pacati, Valentina in primis, e mi scuso di aver cancellato la nostra conversazione. C'è stato un ulteriore commento che mi ha convinta che non era il caso di lasciare quel post, perché non avrebbe fatto altro che generare equivoci.

mercoledì 26 maggio 2010

Dai diamanti non nasce niente

Spesso mi fermo a guardare i mariti. No, non li guardo in QUEL modo, tranquille.
Mi fermo a guardarli quando li conosco solo attraverso le parole delle loro mogli, tipo blogger o colleghe che non ho mai visto fuori dall'ufficio.
Quando poi li conosco, spesso mi capita di essere delusa, di primo acchito. Perché le mogli, pur non incensando i mariti (pratica che odio almeno quanto il suo contrario), ne parlano come di persone speciali. E tu invece, così di botto, ti vedi davanti un uomo normale, magari anche un po' bruttino o semplicemente molto diverso da come te l'aspettavi.
Poi approfondisci un minimo la conoscenza e capisci che sono davvero persone speciali. Magari non bellissimi, magari non brillanti, ma profonde e piacevoli. Il che, penso, è la base per starci bene insieme.
A volte mi fermo a guardare i mariti anche quando li conosco da una vita. Mi ricordo quando mi sono stati presentati con le stelline negli occhi, li ho visti emozionarsi al loro matrimonio, li ho visti diventare padri. Alcuni li ho visti anche separarsi o attraversare momenti cupissimi. In quei momenti, mi sono chiesta quanto giochi l'abbaglio dell'uomo affascinante, quanto anche noi donne siamo attratte dall'idea di poter esibire il nostro compagno (ah, va da sé che per me la parola "marito" non implica necessariamente l'essersi sposati, è che la parola "compagno" proprio non mi piace in questo contesto).
Ovviamente non dico che questo sia l'unico motivo per cui ci si separa (altrimenti io sarei al riparo da questo pericolo), ma a volte mi sembra che abbia un grande peso: troppo spesso ho visto "scartare" persone secondo me interessanti solo perché non erano abbastanza brillanti o non si valorizzavano, mentre poi l'uomo brillante andava a puttane nel tempo libero.
Mio marito ne è un esempio. Luca non è bellissimo, ma è tendenzialmente un bel ragazzo. Ancora di più lo era quando ci siamo conosciuti, 7 anni fa. Certo che, infagottato nei soliti pantaloni casual anonimi, camicia di flanella e maglione girocollo, non se lo filava nessuno. Né al Barattolo, dove il dress code era quello tipico dei centri sociali, né nei locali, dove l'abbigliamento tipico punta al fighetto firmato. In più, lui se ne stava quieto e tranquillo, senza atteggiamenti da fanatico né in un senso né nell'altro. Per farla breve, non si notava.
Ora, se Luca fosse stato un fungo porcino, qualcuno l'avrebbe scovato ugualmente, perché i cercatori di funghi sono abituati a frugare il sottobosco in cerca dei loro tesori, non si accontentano di quelli che spuntano dall'erba e dalle foglie. Le donne invece spesso sì, e la cosa mi pare grave, perché non si tratta di fare un risotto.
Non voglio dire che sono migliore delle altre, per carità: le mie belle cantonate col brillantone di turno le ho prese anch'io, come no. E forse è stato proprio questo a farmi frugare nel sottobosco: dopo aver provato n uomini da esposizione e aver capito che l'apparenza spesso resta tale, ho pensato che magari valeva la pena di provare nuove strade.
Oppure semplicemente sono stata miracolata da qualche forza divina (sarebbe il colmo, per un'ateaccia come me!) e sono stata illuminata dall'amore come nei film. L'altra interpretazione sarebbe che la medesima forza divina voleva punire Luca per orrendi crimini commessi in un'altra vita. Ma dovevano essere proprio orrendi, per mandarlo a vivere in mezzo alle zanzare con quattro gatte, due bambini e due auto che ne hanno sempre una.

martedì 25 maggio 2010

Mamma che serata

Avvertenza: chiunque dovesse essere in disaccordo con questo post sappia che non è il caso di mandarmi accidenti, perché la sorte ci ha pensato prima di voi. Due vomiti notturni di Amelia dovuti alla tosse mi sembrano una punizione sufficiente. No?

Non ho mai scritto recensioni per lavoro. È una delle poche cose che non ho fatto, insieme alla prostituta e alla vendita porta a porta (anche se quest'ultima l'ho sfiorata a 20 anni).
Penso però che non si possa prescindere dal raccontare che ero in ottima compagnia di molte/i blogger, alcune/i già conosciute/i e altre/i incontrate/e per l'occasione. E meno male, perché Luca è dovuto rimanere a casa con i bambini: Amelia tossiva troppo per lasciarla a una baby sitter, per quanto di fiducia.
Quindi la serata è cominciata sotto i migliori auspici, con sane chiacchierate tra amici. Alla faccia di chi dice che gli internettomani sono asociali e chiusi nel loro mondo: provate a mettere insieme una ventina di blogger e misurate i decibel della conversazione e delle risate.
Poi è cominciato lo spettacolo. Ve lo dico subito, così ci togliamo da ogni equivoco: ho riso, e anche tanto, ma mi aspettavo di più.
Intendiamoci: Teresa Mannino è molto brava, anche nell'improvvisare, e, se si dovesse replicare, vi consiglierei di vedere lo spettacolo.
La prima parte poi è stata abbastanza originale: era quella prevalentemente dedicata alla maternità ed è stata quella in cui la Mannino ha interagito maggiormente con il pubblico.
La seconda parte è diventata più "già vista", con pezzi di recupero dai precedenti spettacoli e l'obiettivo più puntato su aspetti più staccati dalla maternità.
Sono stati usati i contributi dei blogger? Secondo me troppo poco, soprattutto alla luce del fatto che alcuni pezzi sono stati proprio riciclati da spettacoli precedenti, mentre c'era molto materiale nuovo. Probabilmente una questione di tempi stretti.
Si è veicolata la nuova idea di maternità? Sì e no. Sì perché comunque non si è scivolati nel sentimentale del tipo "quello che vi ho raccontato è solo una parte, ma essere mamma è stupendo, magnifico, eccezionale, ecc.". No perché sono stati usati (soprattutto alla fine) un po' i soliti stereotipi sulla donna imbranata alla guida, l'uomo interessato solo agli aspetti ludici, ecc.
È stata una colossale operazione di marketing? Beh, sì, anche se alla fine, su 21 blogger all'uscita, non ce n'era una a cui servisse un pacco di pannolini Newborn con cappellino da neonato (le salviettine sì, non sono mai abbastanza!). E quindi oggi molti nidi e neonatologie si vedranno donare diversi pacchi di pannolini che a noi non servono più, e non portate sfiga.
San Babila offre un adeguato dopoteatro? Manco per idea. Siamo finiti in piazza San Carlo in un bar dove una coca cola costa 5 euro, a farci trattare come manco a Roma nelle trattorie della parolaccia. Per fortuna, nonostante il cameriere fosse una specie di Ivan Drago desideroso di chiudere al più presto, la compagnia di nuovo ha avuto un effetto benefico e il chiacchiericcio ancora di più.
Poi, tornata a casa, ho capito dal cesto della biancheria che Amelia aveva vomitato. Luca era ancora sveglio dopo l'ultimo tristo episodio e io mi sono sentita in colpa da morire a lasciarlo solo. Stamattina espierò portando Amelia dalla pediatra e poi nel pomeriggio andremo dall'otorino.
Mamma che vita!

venerdì 21 maggio 2010

Tana

Io non sono un'amante della casa in senso classico: mi interessa avere mobili funzionali e robusti, preferibilmente economici, gli oggetti d'arredo hanno una funzione (in genere fanno da contenitore), il riciclo e il fai da te regnano sovrani. Mi piacerebbe una casa pulita e in ordine, ma spesso non mi riesce di averla: ci sono troppe cose che mi interessano di più delle pulizie. Capisco che per alcuni possa essere uno shock, esattamente come se non mi lavassi: vorrà dire che, se troveranno buone scuse per non venirmi a trovare, non mi offenderò.
Ciononostante, la mia casa mi piace. Mi piace starci e viverla, girare nelle sue vicinanze, sentirmi nel mio territorio. Probabilmente sono un animale territoriale, ma non nel senso di conservatore: mi piace, ogni volta che mi trovo in un posto, conoscere e ricordare bene il mio territorio.
Per esempio, nonostante ci sia stata 3 settimane in tutto, la casa di Levanto la sento mia: conosco i difetti dei due divani, le magagne delle portefinestre della sala, progetto di cambiare la doccetta perché è un po' scomoda. Mi sveglio aspettandomi di sentire il profumo di bomboloni e brioche della vicina pasticceria, se mi sveglio di notte aspetto la campana del Comune per capire che ore sono. Ovviamente ne esco per andare al mare, al parchetto o alla stazione, ma se c'è brutto tempo me la godo come un gatto che si acciambella sul divano.
È stato così anche per la mia casa da single, che anzi difendevo con la stessa tenacia di una gatta: era aperta agli amici a qualsiasi ora di qualsiasi giorno, ma i rari ragazzi che ci portavo andassero fuori dalle balle una volta fatto il mio comodo. Non ci volevo estranei, non volevo che qualcuno potesse piantarci le tende.
Quando ero single, mi capitava relativamente spesso di passare il weekend a casa: durante la settimana molti accoppiati uscivano, ma poi il finesettimana raggiungevano famiglie e/o fidanzati. Io mi riposavo, scrivevo, ascoltavo musica, guardavo la TV. Il tutto in neanche 25 metri quadri, che erano il mio territorio.
Quando invece abitavo ancora in famiglia, non riuscivo a sentire mie le case in cui sono stata: nonostante i miei siano il contrario dei genitori che fanno pesare il mantenimento ai figli, ero pur sempre a casa loro. Non decidevo io i budget o la lista della spesa o i lavori da fare o i bucati: subivo richieste altrui, seppur ragionevolissime.
Credo che questo abbia fatto sì che il sogno di andare a vivere per conto mio sia stato uno dei miei primi sogni da sempre. E, siccome non sarebbe diventato realtà fino al 2002 (con un troppo breve soggiorno genovese nel 2000), ho sempre riversato questa mia passione nella narrativa.
Ogni volta che scrivo una storia, ho chiarissime le case in cui la storia si svolge. Potrei riprodurne senza sforzo la planimetria e l'arredamento.
A volte, le case delle mie storie sono case esistenti. Per esempio, uno dei miei primi esperimenti di romanzo poteva vagamente somigliare alla saga degli Evangelisti della Vargas (o alla situazione di "Prima di morire addio"): c'erano questi quattro studenti che abitavano nello stesso appartamento. L'appartamento che si è materializzato nella mia mente esiste, al quarto piano di viale della Libertà 18, e ci ero stata anni prima insieme al legittimo proprietario. Era un appartamento semiabbandonato, usato un po' come magazzino un po' come appoggio per chi volesse stare in pace o non avesse tempo/voglia di tornare a casa in periferia. Poi è stato dato alla prima figlia che si è sposata e probabilmente sarà stato messo giustamente a posto, perdendo parte del suo fascino.
Altre volte, le case delle mie storie si autodispongono in modo da assecondare i movimenti narrativi, come se già quando non scrivevo fumetti la mia mente progettasse le storie per immagini o sequenze. Per esempio, la casa di Luca in Viola è disposta nel classico modo delle case da sit-com (l'inquadratura principale prevede un totale del soggiorno visto dalla parete cieca, con porta d'ingresso sulla destra, porta della cucina sul fondo e porta della zona notte sulla sinistra), ma l'arredamento è interamente IKEA (avrò visto troppi cataloghi?).
Ci sono poi case che vedo, magari fotografo (ma magari anche no, perché mi piace ricordarle con i miei filtri mentali) e restano lì, a sedimentare ed aspettare la storia giusta. Per esempio, ce n'è una a Chiavari, poco distante dalla stazione: in mezzo a tante case indipendenti degli anni '30-'40, tutte di solito curate abbastanza bene, c'è questa casa con due sfingi a lato dell'ingresso, un po' cadente, con le persiante mezze rotte, un po' lugubre (probabilmente perché non viene ritinteggiata da un pezzo e ha assunto un colorino grigiastro). Non è abbandonata, perché a volte si vedono alcune finestre aperte e qualche luce accesa. Probabilmente è una seconda casa di qualche famiglia di Milano o che che non vuole/può spenderci soldi per metterla a posto e ne usa solo le parti ancora decenti.
Ecco, io quella casa la metterò in una storia. Non so ancora quale, ma sicuramente sarà una storia di atmosfere un po' paurose.
Forse avrei dovuto mettere a frutto questa passione e fare l'agente immobiliare. Qualcuno si candida ad assumermi?

giovedì 20 maggio 2010

On the road

OK, lo ammetto: leggere dell'iniziativa di Flavia mi ha fatto venire molte voglie. In realtà, da buona madre snaturata, non avrei molta voglia di portarmi dietro la famiglia, se intraprendessi un viaggio on the road.
Se facessi un viaggio on the road, lo farei come facevo da single: la mia auto (all'epoca, la gloriosa Twingo poi morta inspiegabilmente tra le mani di Luca), la radio ben fornita di CD e un buon gruzzolo di libri.
All'epoca, essendo squattrinata e moooolto precaria, questi viaggi erano di un giorno, tipo al Trebbia o in Liguria. Non che oggi abbia molti più soldi, ma mi piacerebbe star via un weekend o una settimana. E andare in un posto dove nessuno possa attaccarti bottone neanche per sbaglio, un posto di cui non parlo la lingua o quasi.
Per esempio, se oggi qualcuno mi dicesse "sosterrò le tue spese di viaggio se andrai da sola a fare un giro per una settimana", inforcherei la A7, svolterei verso Ovada e via verso la Francia.
Certo, per la strada troverei tante tentazioni, come nei racconti edificanti di santi o cavalieri: potrei deviare verso posti che mi sono già cari, come Triora, Bussana Vecchia, Dolceacqua e Apricale. Ma tirerei dritto, per arrivare almeno a Menton o fermarmi poco prima, ai giardini Hanbury di Ventimiglia. Forse farei ancora una tappa a Nizza, prima di perdermi nei mille borghi della Provenza
O forse chissà, proseguirei più vicina alla costa per raggiungere Marsiglia, dove vagherei tra un buon locale di pesce e una creperie rileggendomi tutta la serie di Demian.
E da lì mi tufferei nella Camargue: le Saintes Maries sur la Mer, dove i gitani vanno in pellegrinaggio e dove potrei imparare le loro danze, il delta del Rodano, Aigues Mortes.
Forse il mio viaggio finirebbe a Montpellier: l'antica città universitaria il cui nome ricorre spesso nell'Opera al nero della Yourcenar, uno dei libri che amo di più e da cui mi sento più rappresentata.
L'ideale sarebbe fare il viaggio di ritorno insieme a qualcuno, qualcuno che deve tornare in Italia senza deviazioni e che abbia tanto da raccontare: uno studente a fine Erasmus, una persona in trasferta di lavoro che torna dai suoi cari, una cosa così.
Qualcuno che possa condividere lo stato d'animo di chi può andarsene anche lontano, ma con la certezza di tornare a ciò che ama.

martedì 18 maggio 2010

La fame e la sete

Ieri sera, ho ripreso Ettore perché stava giocando con il copritastiera del pianoforte. Mentre cercavo di spiegargli che poteva farsi male e poteva rovinare il piano, lui si è girato e mi ha fatto una pernacchia. Del tipo: non me ne frega niente delle tue spiegazioni, va' a cagare.
Al che mi sono incazzata come una iena e l'ho mandato a letto subito, dicendogli che si sarebbe addormentato nel suo lettino, senza coccole e senza mano. Lui è filato a letto senza dire nulla ed è rimasto talmente zitto che io ho pensato che si fosse addormentato e sono andata avanti a fare quello che dovevo tra il bagno e l'altra stanza.
Dopo un quarto d'ora circa, mi affaccio sul suo lettino e lo vedo sveglio ma zitto. Tranquillo, come un gatto che sa di averla fatta grossa ed evita di peggiorare il suo stato. Mi ha intenerita. Gli ho chiesto se avesse voglia della mia mano e lui subito mi ha detto sì. Abbiamo fatto pace.
In un flashback, mi sono ritrovata un anno fa, con Amelia. Non ricordo bene che cosa avesse fatto, ma l'aveva fatta un po' grossa e mi ero arrabbiata con lei. L'ho mandata a letto con le stesse modalità di Ettore ieri, ma lei si è messa a piangere e ululare sempre più forte, in modo quasi isterico, irritandomi ancora di più. La situazione si è risolta grazie all'intervento ex machina di Luca, che è arrivato con un giorno di anticipo e con una vaschetta di gelato. Altrimenti credo che ci saremmo scannate ancora peggio.
Se voglio trarre una morale da questo confronto? Mah, la morale potrebbe essere che spesso non è importante aver sbagliato, ma come si reagisce ai rimproveri. Un'altra morale potrebbe essere che non fare rumore paga di più che farne troppo: da noi si dice "parlà poc bucà ben" (potrebbe essere tradotto: "chi parla poco fa abboccare i pesci").
La mia personale morale è che i miei figli sono come la fame e la sete: diversi che più non si può, e quindi assolutamente non paragonabili e non prevedibili.

lunedì 17 maggio 2010

Altre prove di conciliazione

L'anno scorso, a proposito della festa dei nonni (che ai miei tempi non c'era e mi pare cada in ottobre), lessi un dato abbastanza impressionante: nell'avanzatissima Lombardia, dove gli asili nido (privati) fioriscono e dove bene o male le strutture funzionano discretamente, una percentuale impressionante di nonni (mi sembra di ricordare il 67%) accudiva abitualmente i bambini al posto di tate e nidi.
Infatti, da una ricerca in rete, risulta che in Lombardia i nonni farebbero risparmiare circa 9 miliardi di euro alle famiglie (dato ricavato da un'elaborazione della Camera di Commercio di dati Istat 2008), visto tra l'altro che la richiesta di assistenza risulta in aumento.
Mettendo per un attimo da parte il dibattito nonni-babysitter-nido, mi chiedo come mai, quando si parla di conciliazione, questo dato venga sottovalutato o svalutato.
Mi spiego: spesso si parla del modello italiano come di un modello non sostenibile da un Paese civile, perché spesso la famiglia si fa carico di doveri che dovrebbero essere quelli dello Stato. Un anziano in pensione dovrebbe potersi godere la pensione, senza l'assillo di DOVER aiutare i figli economicamente e/o logisticamente. E quindi spesso, nei discorsi di conciliazione, si parla di madri o al massimo di nuclei familiari. Invece io mi chiedo perché non si parli anche di nonni.
Quando qualcuno parla di nonni alle "mamme consapevoli", quelle di cui faccio parte anch'io, spesso la risposta è o un secco rifiuto ("i miei figli voglio crescerli io con i miei metodi, e non con quelli obsoleti dei nonni") oppure un po' di derisione ("dici tanto alle varie Fate del Bosco ma poi ricadi lì anche tu").
Ebbene, sono io la prima a temere la situazione che si creerebbe se mia madre fosse responsabile dell'educazione dei miei figli (e soprattutto di Amelia) per 9-10 ore al giorno. Tuttavia, penso che mia madre sarebbe comunque preferibile alla tata Petronilla ignorante come una capra. Oppure penso che il fatto che mia madre mi facesse risparmiare 500 euro al mese mi avrebbe di prendere un part time dal 2008 anziché farmi sospirare (e speriamo in bene) fino al 2011.
Chi invece crede nella Natura maestra di vita mi dirà: ma i bambini sono fatti per stare con la mamma. E io risponderò: ma quando la mamma primitiva li aveva svezzati, con chi credete che stessero i bambini quando le mamme uscivano a raccogliere frutta e verdura? Qualcuno avrà pur fatto la guardia alle provviste, no? Al villaggio (o nella caverna) probabilmente rimanevano vecchi e bambini, fin dalla notte dei tempi. Ecco perché i nostri bambini sono così contenti di stare con i nonni: per loro probabilmente è la cosa più naturale del mondo.
Ed ecco perché mi chiedo come aiutare questo processo naturale, per chi desidera perpetuarlo ai giorni nostri. Alcuni nonni sono in pensione, e spesso il meccanismo si instaura da sé, se c'è la salute e la voglia. Ma molti di noi hanno genitori che lavorano ancora e che lavoreranno per un po' d'altri anni, complice anche l'allungamento dell'età pensionabile.
Non sarebbe possibile, per queste persone, studiare una forma di prepensionamento facilitato per permettere loro di curare i nipoti? Anche part time (ma in modo che non incida sull'entità della pensione), in modo che possano sopperire alle carenze delle strutture pubbliche (si può fare un nido comunale che chiude alle 13.30?), se loro o i genitori non se la sentono di gestire un affido totale. Anche un'aspettativa retribuita temporanea, se sono ancora troppo lontani dalla pensione e c'è la possibilità di mandare i nipoti alla materna.
Credo che costerebbe meno che creare nuovi asili nido e potrebbe aiutare le madri che lavorano a sentirsi meno dilaniate nel tornare al lavoro.

venerdì 14 maggio 2010

Il paradosso del bravo figlio

C'è una cosa che mi fa capire che ormai ho irrimediabilmente passato il crinale: quando vedo un bel ragazzo sui 18-20-22, invece di pensare "vorrei avere 10 anni di meno per farmelo", penso "vorrei che mio figlio diventasse così". Lo so, è imperdonabile, ma non posso farci niente.
I ragazzi che me lo fanno pensare, di solito, non sono i classici bravi ragazzi tutti studio e casa. Di solito lo penso di quei ragazzi con l'aria di essere un'acqua cheta che rompe i ponti: quelli che sì, alla fine faranno qualcosa di bello nella vita, ma non senza aver fatto prendere qualche spavento o qualche arrabbiatura ai propri genitori.
L'ultima volta, ricordo di averlo pensato di un mio lontano cugino, che non vedevo da quando era bambino. Questo ragazzo ha sui 20-22 anni, un fisico un po' minuto ma ben fatto, un viso molto bello, capelli neri e bellissimi occhi azzurri. Girava con sua madre da Decathlon (io ero con la mia e con i miei figli) e aveva l'aria del tipo "mamma sto bene con te ma non sei l'unica cosa della mia vita". Insomma, il rapporto tra questo ragazzo e sua madre mi è sembrato buono e sano, come vorrei fosse il mio rapporto con mio figlio.
È strano che una madre pensi: figlio mio, fammene qualcuna sotto il naso. E che poi si debba comportare per evitare che ciò avvenga. Penso che si possa paragonare a quelle esercitazioni militari in cui il sergente fa di tutto per batterti ma alla fine è orgoglioso che sia tu a battere lui.
Il fatto è che ho conosciuto troppe persone rovinate dal voler compiacere in tutto i propri genitori. Per esempio, il mio ex dell'università era uno di questi, e ciò l'ha portato a non crescere emotivamente, a non voler contrariare mamma e nonna anche quando le loro richieste gli sembravano razionalmente assurde. Probabilmente, chi si comporta in questo modo interiorizza eccessivamente l'autorevolezza dei genitori ed è portato a pensare (anche senza volerlo) che i genitori abbiano ragione a prescindere. E che il suo compito nella vita non sia essere felice, ma rendere felici loro.
Come può testimoniare mia madre, io sono sempre stata il contrario di questo prototipo. Da fuori, posso sembrare la brava figlia, perché di colpi di testa ne ho fatti pochi e senza grandi conseguenze: mai una bocciatura a scuola (ma qualche problema di disciplina sì), mai un problema di droga o alcol, mai serate di divertimento sfrenato senza il loro consenso, l'università finita in pochissimo tempo, il master pagato da me fino all'ultimo centesimo, un lavoro decente già a 24 anni, una famiglia meravigliosa, il lavoro statale.
Il fatto è che io ho fatto tutto questo per me, non per i miei. Ai miei genitori ho sempre tributato l'affetto e il rispetto che meritano, tengo in conto le loro opinioni, sono contenta che abbiano potuto sostenermi in questo percorso (ma non li ringrazio, perché credo che abbiano fatto il loro dovere di genitori). Ma non ho mai fatto nulla per compiacerli, se non piccole cose.
Ho sempre pensato che la vita fosse mia e che, se avessi fatto qualcosa per far piacere a qualcun altro, poi le conseguenze sarebbero cadute addosso a me. D'altro canto, se qualcuno dovesse mai fare una scelta importante pensando di fare piacere a me, mi sentirei schiacciata sotto le eventuali conseguenze negative di quella scelta. Ne consegue che, se io avessi il classico "bravo figlio", saremmo infelici in due: io che non vorrei mai condizionare così pesantemente le persone che amo e mio figlio che non sarebbe libero nelle sue scelte.
Notate che parlo di figlio maschio, forse perché spesso questo meccanismo si propone su figlio maschio/madre chioccia, ma forse nella mia famiglia quella più a rischio è Amelia: è lei quella più fragile, che desidera immensamente compiacerci, che vive anche la dimensione sociale in modo più intenso. Ettore, a dire il vero, mi sembra più come me o come suo padre: per ora, va dritto per la sua strada senza ribellioni (che poi, quando sono eccessive, a me sembrano l'equivalente del bravo figlio: faccio le cose non per me, ma per farti dispetto) e senza ricercare il nostro consenso. Per carità, ha solo 2 anni, ma questo gnometto di 2 anni è capace di prender su e andare nell'altra stanza a "leggere" da solo, se non gli interessa quello che stai facendo.
Spero che tra una ventina d'anni possiamo andare a fare shopping insieme, io e i miei figli, litigando sui rispettivi gusti ma consapevoli del fatto che siamo diversi e che non dobbiamo per forza andare d'accordo su tutto.

mercoledì 12 maggio 2010

Certi giorni

Certi giorni sono come entrare dentro un frullatore o come riportare dentro di sé il tempo pazzo di questo maggio: esci con il cielo a pecorelle, poi esce il sole, poi un bel temporale, poi di nuovo il sole, poi di nuovo nubi.
E così stamattina sono uscita col pensiero che Bianca stava bene e Bigia male, sono arrivata in ufficio col pensiero di dover parlare col preside della questione di cui sotto e poi invece probabilmente sarà rimandata a lunedì, sono stata in (minima) apprensione per un esame di controllo di Luca e ho avuto buone notizie, mi sono scervellata per capire che male sta attaccando le mie gatte, ho fatto una telefonata con poche speranze e invece ho trovato una sponda per Viola, ho avuto una mattina produttiva e un pomeriggio inconcludente (rispondere al telefono in continuazione mi impedisce di concentrarmi - le mie colleghe nel pomeriggio erano in centrale), ho voglia e bisogno di scrivere un po' di cose ma devo mettere in sesto il mio portatile che è stato riformattato e si son persi un po' di dati. In più, in queste notti Ettore si sveglia per la pipì, il che è ottimo per il suo spannolinamento (infatti contiamo di dar via presto un paio di confezioni di pannolini, che non ci servono più perché li rifiuta), ma deleterio per il mio riposo. In più, vorrei che l'estate si decidesse a cominciare. In più, mi manca il mare e non so quando potrò tornarci. In più, domani passerò quasi tutto il giorno in otorino per dei controlli ad Amelia e non ne ho proprio voglia, devo organizzarmi con libri e giochi, però se finiamo a un'ora umana possiamo passare il resto della giornata insieme e andare a prendere la Bianca. In più, venerdì pomeriggio devo andare a Salice per l'allergologo e non ho per niente voglia, ma magari è un'occasione per fermarmi un po' di più sul lavoro e recuperare un po' di ore perse per la terapia al collo. In più, nel weekend pioverà e Luca avrà il corso di bonsai tutta la domenica.
Certi giorni vorrei prendere un cargo sola andata per la Polinesia, io e tutta la mia ohana, e vivere su un atollo fino al prossimo tsunami.

Vestiti, usciamo

Lo so, è un po' di tempo che non parlo di Viola. Il fatto è che sono in attesa che il disegnatore che mi si è proposto (e di cui sono entusiasta) finisca un lavoro in corso e sia disponibile. Per la graphic novel, s'intende, in volume unico o in tre albi. La serie è un lontano progetto presente solo nella mia testa, figurarsi gli speciali (peraltro entrambi solo abbozzati).
Però i risvegli notturni di Ettore (talis mater talis filius, a metà notte gli tocca un risveglio-pipì) mi rendono difficile riaddormentarmi e quindi la mia mente ha più tempo per divagare in pensieri oziosi. Per esempio, stanotte pensavo ai vestiti.
Che donna frivola, direte voi. No, in realtà non pensavo ai vestiti in "quel" modo. Pensavo a quanto i vestiti sono importanti, nella nostra società, per raccontare la nostra personalità e il nostro modo di essere. Non esiste una codifica precisa, eppure quasi tutti noi siamo in grado di stabilire se il modo in cui una persona è vestita è appropriato o no.
A mo' di pettegolezzo, ne parlavamo con una mia collega a proposito di una persona degli uffici centrali. Bella donna, per carità, ma sempre vestita con minigonne inguinali, calze trasparenti o non pervenute, tacchi vertiginosi. Per non parlare del trucco pesante. La giudicavamo fuori luogo quasi di più di una che si presentasse in ufficio in braghette e infradito di plastica.
E io ho ricordato un'altra persona con cui ho lavorato, una persona del mio passato: bellissima donna (alta, bionda, capelli lunghi e folti color miele, gambe spettacolari), era spesso vestita ai minimi termini o in modo estroso, ma con abiti e accessori originali anni '60-'70 che la collocavano in tutt'altro contesto. Come per dire: svestita sì, perché mi piace esserlo, ma con classe.
E mi sono ricordata anche una conversazione con un mio amico di 7-8 anni fa, in cui io gli parlavo di una mia evoluzione personale portandogli l'esempio dei miei abiti e lui mi dava della superficiale perché alla fin fine secondo lui stavo parlando di moda.
Invece no. Sono ancora convinta che, se una persona comincia a desiderare di vestirsi in modo diverso, qualcosa sta cambiando anche dentro di lei e magari anche attorno a lei.
Infatti ho cercato di studiare Viola in modo che le varie epoche della sua vita siano ben riconoscibili dai vestiti e dai capelli, e non solo come espediente per non far perdere il lettore nei vari flashback.
Nelle scene del passato remoto, quelle in cui si spiegano gli avvenimenti che hanno portato Viola ad entrare nell'antiterrorismo, Viola ha 23 anni e uno stile molto anonimo, quasi per volersi invecchiare e darsi autorità nell'ambiente accademico in cui credeva di continuare la sua carriera: capelli corti e castani, gioielli discreti (tipo orecchini di perle), vestiti di taglio classico un po' severo, scarpe anonime e serie.
Nella storia ambientata prima e durante il G8 di Genova, Viola ha sui 30 anni ed è molto diversa: i capelli sono lunghi, spesso raccolti ma non in modo ordinato, e sfacciatamente rossi, mentre i suoi abiti oscillano tra lo stile Max Mara per l'ufficio e uno stile un po' più libero (gonne lunghe, più colori, vestiti un po' più originali) per il resto del suo tempo. Verso la fine della storia, complice il caldo estivo, i due stili si avvicineranno e la vedremo spesso con abiti leggeri e svolazzanti e sandali, in entrambi i contesti.
Nella serie, Viola ha dai 35 anni in poi e si è decisamente più rilassata: i capelli si accorciano in una testa semilunga un po' sfilata (il taglio che molte di noi si fanno all'arrivo dei figli, per essere pratiche ma non sentirsi monache), i capelli sono un po' meno rossi ma tipo castani trattati con henné, gli abiti sono normalmente casual e comodi senza essere trascurati (gli abiti di una persona che va in ufficio ma in un ambiente informale, per intenderci, una cosa tipo H&M o Benetton).
Sempre sui vestiti ho lavorato per la caratterizzazione dei vari personaggi. Ad ognuno ho attribuito uno stile particolare o un indumento caratteristico. Per esempio, Darius dev'essere un po' architetto dentro (almeno, secondo la classificazione di Biondillo, che di architetti se ne intende), perché si mette spesso quel casual fighetto tipo pantaloni di velluto a coste e maglione a collo alto sotto la giacca. Gli abiti di Stefan li ho immaginati anonimi, classici pantaloni + camicia + maglione, ma gli ho attribuito per l'inverno un giaccone doppiopetto da marinaio stile Corto Maltese. Gli abiti di Chiara e Carlo sono rustici ma quel rustico un po' stereotipato (tipo contadino con la camicia di flanella) e/o radical chic (le Birkenstock, l'abito di maglia fatto ai ferri). Luca si veste come il mio Luca, ovvero in modo casual anonimo e un po' stropicciato.
Per loro, non ho immaginato un'evoluzione stilistica radicale: loro non vivono terremoti emotivi come quelli di Viola, cambiano pelle sì ma in modo graduale e naturale, come tutti gli esseri umani che seguono un percorso. E vengono visti in un periodo di tempo più limitato e meno decisivo rispetto al personaggio di Viola, che si evolve dai 23 ai 35 anni.
Ora, io spero che questi miei vaneggiamenti non rimangano tali e che presto possiate vedere qualche tavola, in modo da farvi una vostra idea. Incrociamo le dita e speriamo che davvero cominciamo presto a lavorarci.

martedì 11 maggio 2010

Stordimento improvviso

Ultimamente mi capita di chiedermi se sono superficiale, se sono proprio poco intelligente o se qualcuno si è dimenticato di dirmi qualcosa.
Sul lavoro, sono responsabile dell'inserimento dei dati in un database. Da quello che ho capito, i dati più urgenti da inserire sono i regolamenti (ovvero l'impianto di tutto il corso di laurea) e la programmazione (ovvero i corsi attivi per il primo e il secondo anno), il tutto per 3 corsi di laurea. Da quello che so, i regolamenti e le programmazioni saranno identici a quelli dell'anno scorso, tranne alcune variabili trascurabili. Da quello che ho capito, il software dovrebbe permettere automaticamente di replicare regolamenti e programmazioni da un anno all'altro. Da quello che mi hanno detto, non è importante che io metta subito le coperture, ovvero chi fa cosa. E allora mi chiedo come potrebbe essere che questo software mi richieda più di una settimana di lavoro. Mi chiedo perché, se il software verrà aperto al 15 giugno, io non dovrei farcela a inserire tutto entro il 30 giugno e andarmene in congedo parentale a luglio e agosto.
Oltretutto, che io intendessi prendere l'estate di congedo parentale era noto dal 15 ottobre dello scorso anno: il mio preside era d'accordo, le mie colleghe pure. Oltretutto, il programma ha subito enormi ritardi nella chiusura dello scorso anno accademico (dal 15 febbraio al 15 maggio e ora slitterà forse alla fine di maggio) e quindi sono abbastanza certa che fino a fine settembre i giochi non si chiuderanno. Oltretutto, ho dato la mia disponibilità a lavorare da casa, durante il mio congedo parentale, senza essere retribuita perché l'università non lo prevede.
Mi chiedo che cosa dovrei fare di più, per non costituire un problema.
Poi, su FB, mi trovo infognata in una discussione lanciata da Vere Mamme sul tema del congedo condiviso. Molte donne sembrano pensare che poter dividere i 5 mesi di maternità col proprio marito sia una mina per l'attuale legge sulla maternità. A me, posto che i 5 mesi siano davvero obbligatori, non sembra affatto. Anzi, mi sembra che ciò possa aiutare le persone che lavorano in proprio o in nero, che non hanno diritto a niente e il cui compagno adesso non può prendere la maternità obbligatoria per aiutarle. Oltretutto, visto l'andazzo, non penso che saranno tante le donne che vorrebbero tornare al lavoro in favore del marito che sta a casa, e le aziende continuerebbero a dare per scontato che la donna tende a stare a casa con i figli piccoli. Anche perché non nascondiamoci dietro un dito: nella maggior parte dei casi, siamo ben contente di stare a casa a fare le chiocce coi nostri neonati a stipendio pieno (o all'80% in caso di co.pro.). Culturalmente, pochissimi uomini si sentirebbero realizzati a stare a casa a badare alla prole, anche solo per qualche mese, mentre per una donna spesso la maternità viene avvertita come l'apoteosi della femminilità.
Però alcuni uomini lo farebbero, anche solo per aiutare le proprie donne a tornare al lavoro (cosa che dovrebbero fare ugualmente, se no addio clienti e addio lavoro) senza dover lasciare il proprio neonato a tate prezzolate, per quanto premurose.
Non lo so, forse seguire lo spannolinamento di Ettore ha leso i miei neuroni. Forse nell'acqua della cascina mettono sostanze psicotrope. Forse gli altri sanno cose che io non so. Ma allora ditele, così non sto a fare figure.

domenica 9 maggio 2010

Flessibilità a comando

Come già accennavo in questo commento, in questa settimana convulsa (tra corse dal veterinario e improvvise scadenze di lavoro) c'è anche stato il colloquio con le maestre di Amelia.
Amelia mi è stata descritta come chiacchierona e socievole, ma anche molto pigra, distratta e incline a intristirsi e inventarsi malanni per evitare di portare a termine certe attività didattiche che non le vanno.
Anche se le maestre mi sono sembrate animate dalle migliori intenzioni, hanno detto cose come "è immatura", "vedremo (se chiedere un sostegno) quando faremo i colloqui per le elementari", "ne ha parlato con la pediatra?".
Hanno anche detto, a onor del vero, che molti bambini maturano durante l'estate e che Amelia stessa ha fatto progressi rispetto all'anno scorso (per esempio, sa usare il congiuntivo, a differenza di una delle due maestre - scusate la stronzaggine, ma questa cosa del congiuntivo non l'ho ancora metabolizzata).
Si è trattato di un colloquio di 10 minuti, come da scaletta (ma come fai a fissare i colloqui a intervalli di 10 minuti?), e mi ha lasciata un po' interdetta.
Se da un lato ho riconosciuto molte caratteristiche di Amelia e ho apprezzato che anche le maestre le abbiano notate (almeno sono certa che stanno parlando proprio di mia figlia, che non stavano facendo un discorso preconfezionato buono per tutti i bambini), dall'altro sono un po' perplessa che abbiano insistito tanto sulle sue caratteristiche negative. Senza per nulla considerare che spesso Amelia è realmente stanca, dal momento che di sera è capace di addormentarsi alle otto con la testa sulla tovaglia o addirittura di appisolarsi in macchina al ritorno dalla scuola e tirare fino alle sei del mattino dopo.
Poi sono assolutamente d'accordo con loro che a volte Amelia è incapace di focalizzarsi e si perde in un bicchier d'acqua, ma di solito le succede quando fa qualcosa di noioso e poco interessante, tipo vestirsi o mangiare qualcosa che non le piace da impazzire. Quindi deduco che le attività che non vuole portare a termine siano per lei noiose, e non posso darle torto: io non l'ho mai fatto, ma punteggiare deve essere una palla colossale.
Un'altra cosa che non mi è piaciuta è stata la loro reazione a una mia battuta. Loro mi stavano dicendo questa cosa del non focalizzarsi e del preferire attività più libere. Ed io, sorridendo e sostanzialmente dando ragione a loro, ho detto: "Eh sì, io dico sempre che Amelia è la mia figlia steineriana (per intendere che ama l'attività libera e creativa), mentre Ettore è il mio figlio montessoriano (perché si concentra maggiormente su un obiettivo)". Le due maestre si sono irrigidite come se avessi invaso il loro campo, quasi come se avessi detto "ma che state a rompere le balle a una bambina libera e creativa, Steiner vi farebbe un culo così", salvo poi distendersi quando hanno capito che non intendevo entrare in nessuna disquisizione pedagogica. E questo non mi è piaciuto, perché secondo me, se hai deciso di adottare un certo metodo didattico, devi sentirti serena nel confrontarlo con altre pedagogie. Ammesso che tu ne sappia abbastanza, delle altre pedagogie.
Infine, non mi è piaciuto il modo in cui si è concluso il discorso: mi hanno consigliato delle attività da far fare ad Amelia per stimolare la sua capacità di concentrazione. Ma si tratta di attività che mia figlia già fa con piacere: leggere un libro a puntate (ve li ricordate Amelia e Zio Gatto e Il gatto del rabbino?), fare giochi da tavolo (puzzle e memory, già presenti e amati), colorare (abbiamo stampe su stampe, e recentemente anche dei mandala). Ho detto: beh, sì, già lo facciamo, leggiamo spesso libri insieme. E la maestra ha risposto: E poi potreste anche fare un bel disegno con i personaggi.
Questa affermazione, apparentemente innocua, mi ha fatto capire che:
a) la maestra, che non ha figli come la maggioranza delle sue attuali colleghe, non ha la più pallida idea del tempo e delle forze che ci restano una volta tornati a casa;
b) la maestra non si rende conto che associare un'attività ludica a un obbligo quasi didattico (facciamo il disegno di...) significa disamorare il bambino nei confronti dell'attività ludica, non ammantare di piacevolezza l'obbligo.
Invece di ribattere, ho ringraziato e sono uscita: era tempo di lasciare il posto a un'altra mamma.
Mentre rifletto su questo colloquio, dentro di me si battono due anime.
C'è un'anima che odia i genitori che danno sempre ragione ai figli: ah ma il mio povero piccolo è un genio incompreso, eh ma è tutta colpa della scuola che gli tarpa le ali, eh ma questi esercizi sono troppi e sono difficili.
Ma c'è anche l'altra anima che conosce Amelia, ha collezionato altri pareri su di lei e si fa delle domande. Tipo: perché Caroline, la maestra di inglese, mi dice sempre tutt'altro su Amelia, ovvero che è entusiasta, che ascolta ed esegue bene, che è un piacere insegnarle? Oppure: perché Monica, la direttrice del nido di Amelia ed Ettore, mi dice che Amelia è intelligente e originale? Perché, quando vedo mia figlia ballare o inventarsi giochi, penso che sarà pure lunatica e cagacazzo, ma ha un'anima grande e bella?
Io cercherò di aiutarla ad uniformarsi a ciò che le richiederà la scuola, ma non perché lo considero giusto: semplicemente lo farò per permetterle di mettere a frutto i suoi talenti senza incagliarsi negli ostacoli della rigidità burocratica degli insegnanti. Nello stesso tempo, ogni volta che mia figlia si uniformerà al diktat della programmazione didattica, da un lato sarò felice per lei che supera un ostacolo, ma nello stesso tempo mi sanguinerà il cuore a vedere la sua libertà limitata.
E nel frattempo, sulla scorta di questa riflessione, mi chiederò: ma perché, mentre nella formazione agli adulti si fanno i salti mortali per andare incontro al discente, nella scuola sono i bambini a dover fare i salti mortali per andare incontro agli insegnanti? E non venitemi a parlare di soldi che non ci sono nella scuola pubblica, perché quello che chiedo io è davvero poca cosa in termini economici: si tratta di punteggiare una volta di meno per mettersi a intrecciare strisce di carta o giocare coi bottoni o infilare collanine. Si tratta magari di allargare i propri orizzonti e chiedersi: perché succede questo? E se provassi a fare quest'altro?
Non dico che la scuola pubblica debba per forza trasformarsi in una scuola montessoriana o steineriana. Ma credo anche che ormai gli insegnante di ogni ordine e grado abbiano capito che lo stesso approccio non va bene per tutti.
E allora? Allora, se non si fa nemmeno un tentativo per recuperare, se non si cerca un momento di riflessione (anche in comune con le famiglie, perché no?), se si rimane piantati sulle proprie posizioni, non si può essere certi di avere ragione e i bambini torto. Non si può chiedere a una famiglia di replicare al proprio interno le dinamiche della scuola, senza rendersi conto che può essere proprio la dinamica sbagliata a causare il problema di quel bambino. E tu, che sei un insegnante, sei al servizio di quel bambino e del suo apprendimento, non il contrario.

venerdì 7 maggio 2010

La mamma angelicata e le sue parenti strette

Qualche giorno fa, un'amica mi ha chiesto perché ce l'ho tanto con lo stereotipo della mamma angelicata, che a lei sembra il minore dei mali. Rispetto a cosa?, le ho chiesto io. Rispetto allo stereotipo della donna puttana, risponde lei.
Il fatto è che io penso che la Madonna e la puttana siano le due facce della stessa moneta. Una moneta falsa che però viene spesa munificamente nel nostro Paese (e magari anche altrove, ditemelo se è così, perché mi interessa).
Prima, sei al totale servizio del tuo uomo: sempre perfetta e bellissima, sempre provocante e pronta all'amplesso, capace di irradiare ormoni anche mentre pulisci la lettiera del gatto. Fai schiattare d'invidia gli uomini e le altre donne, così svettante sui tuoi tacchi, così generosa con la tua scollatura, così languida col tuo sguardo. Ti fai la brazilian wax per eccitare il tuo uomo e non sia mai che nella tua scarpiera ci sia un paio di Birkenstock (e anche se ci fossero, diresti che le usi quando interpreti Heidi, la piccola montanara porno).
Poi, il tuo signore e padrone diventa tuo figlio: passi prontamente dal tacco 12 al 5 bon ton, le gonne magicamente si allungano e le scollature sono ammesse solo per allattare, i capelli ti si allisciano per effetto degli ormoni e ti si raccolgono spontaneamente in uno chignon da ballerina. Come prima eri pronta ad ogni tipo di amplesso in ogni momento, bastava che il tuo uomo te lo chiedesse, così ora sei pronta a pulire ogni vomito, cambiare ogni pannolino, porgere ogni volta la tetta / il biberon senza mai lamentarti e con il sorriso sulle labbra. Cucini cibi sani e genuini per il tuo bambino, usi il Napisan per proteggere il tuo bambino, ti preoccupi della salute dei denti del tuo bambino.
Nell'uno e nell'altro caso, la donna non fa mai nulla per se stessa: trae gratificazione dal piacere di un altro, sia il partner o la prole.
Credo, invece, che sostituire la mamma angelicata con un modello più aderente alla realtà potrebbe portare all'estinzione della donna puttana o almeno metterne in pericolo la specie.
Probabilmente si tratterebbe di sostituire uno stereotipo con un altro, non mi illudo. E devo dire che anche lo stereotipo della mamma in carriera mi sta un po' sulle balle, fa molto anni '80 della Milano da bere.
Trovo più sostenibile il modello della mamma incasinata, quella che non riesce mai a fare tutto alla perfezione perché non ha mai tempo, quella che tiene in bilico mille piattini cinesi contemporaneamente e ogni tanto gliene si rompe uno.
Mi rendo conto che questo modello potrebbe diventare uno stereotipo non meno odioso dei due citati poco fa: si fa presto a scivolare nel vittimismo, descrivendo questo genere di mamme come delle sfigate con le occhiaie da panda e i vestiti perennemente pataccati.
Io per prima ricordo un pomeriggio di qualche anno fa, a Torino: ero al tavolino di un bar di via Garibaldi, con Amelia e Ettore piccolissimo. E vedo questa mamma, con due bambini di circa un anno più grandi dei miei, qualche tavolo più in là. Aveva un'aria talmente scoglionata e infelice, terribilmente stridente con la bellezza e la serenità dei suoi bambini, che mi è venuta voglia di andarla a prendere a schiaffi (poi magari aveva appena portato il marito in ospedale e aveva buoni motivi per essere così, ma sul momento mi è sembrato proprio che la sua espressione fosse legata ai figli). Quando Luca è uscito dal bar e mi si è avvicinato, gli ho detto: se un giorno mi vedrai con una faccia così scoglionata, mentre i miei figli sono sani e felici, tirami un pugno.
Però quella madre era vera, anche se sgradevole. E preferisco essere rappresentata da lei piuttosto che dalla prima sgallettata che passa sui suoi tacchi 5 e con la carrozzina firmata.

mercoledì 5 maggio 2010

Conciliamo?

Nel blog e nei forum a prevalenza di mamma si parla spesso di conciliazione lavoro-maternità. Anche qui se ne è parlato, e talvolta si è pure usata la parola "privilegio" per indicare l'agio con cui gli statali possono prendere congedi e permessi per la famiglia. Desidero sottolineare che mi sono definita "privilegiata" non perché io pensi di non meritare questo trattamento, ma perché sono consapevole del fatto che chi non è statale spesso non riceve un trattamento simile, nonostante ciò sia profondamente ingiusto. Mi sono definita "privilegiata" per indicare il fatto che in Italia esercitare i propri diritti fino in fondo è talmente raro da diventare un privilegio di casta o di contratto. E ciò è profondamente sbagliato.
Detto questo, non commenterò le assurdità dette da una ministra zelante ancora preda degli ormoni del parto e vittima del proprio servilismo. Mi limiterò a sviluppare una riflessione nata qui.
Dicevamo: si parla spesso di conciliazione lavoro-maternità e se ne parla come se fosse un problema delle donne. Come dicevo da ITmom, credo che, finché ci lasceremo confinare nella dicotomia mammalavoratrice/mammacasalinga, non ne verremo fuori.
C'è crisi, le aziende licenziano, c'è esubero di personale: perché un'azienda già in crisi dovrebbe accollarsi il peso di una donna con figli piccoli, che magari è costretta a stare a casa sotto scadenza perché si ammalano e nessuno l'aiuta? Io personalmente prenderei solo uomini, oltretutto ho sempre lavorato benissimo in aziende a prevalenza maschile: pochi pettegolezzi, poche invidie, se c'è un attrito salta fuori subito, molto spirito di squadra. Le donne, invece, a parte poche eccezioni (SilviaB, se mi leggi sai che parlo di te), spesso degenerano nelle logiche del pollaio o dell'harem: grandi sorrisi davanti, ma dente avvelenato sempre pronto.
Ecco, però ora immaginate che ci sia una grande rivoluzione culturale: improvvisamente gli uomini vengono contagiati da un virus di origine scandinava e cominciano a protestare a gran voce contro le donne. Dicono che vogliono la parità. Noi donne, ovviamente, li guardiamo stranite: oddio, non è che adesso si metteranno a bruciare i boxer sulla pubblica piazza? No, gli uomini sono seri: si sono rotti i maroni di donare lo sperma per fare figli che vedono sempre addormentati durante la settimana, non vogliono più essere genitori part-time solo il sabato, non ci stanno più.
Gli uomini vogliono portare i figli a fare sport e musica, vogliono parlare con gli insegnanti e aiutare i figli a fare i compiti, vogliono occuparsi personalmente dell'educazione dei figli invece di delegarla alle donne. Vogliono godersi i bambini che hanno contribuito a mettere al mondo, invece di chiudersi nei loro uffici con il capo stronzo e il collega sfigato. Vogliono vivere come esseri umani, anziché come lavoratori.
Di fronte a una pressione del genere, il governo, oltretutto composto da uomini e quindi colpito dal virus scandinavo anch'esso, formula soluzioni di conciliazione che aiutino le famiglie: paternità obbligatoria, incentivi alle aziende che concedono il part time per motivi di famiglia, sovvenzioni alle famiglie che decidono di non usufruire del nido ma senza che uno dei due rinunci al lavoro, premi alle aziende che promuovono una vera flessibilità o il telelavoro, obbligo per le ASL di istituire corsi di preparazione alla paternità e chi più ne ha più ne metta.
I parchetti si riempiono di padri e gli uffici di madri alle ore più impensate, diventa naturale anche dividersi i compiti di casa, i bambini non si vergognano di giocare con le bambole e le bambine possono legittimamente aspirare a diventare qualsiasi cosa desiderino essere.
Vi sembra un'utopia? Beh, questa utopia, part time a parte, ha preso piede in casa mia: Luca vorrebbe la parità, vorrebbe poter usufruire del congedo parentale, vorrebbe un part time. Ma tristemente le istituzioni e i datori di lavoro possono fregarsene, quindi il part time lo chiederò solo io, all'80% invece che al 90%. Con la speranza che prima o poi quel virus arrivi, o che i responsabili se ne prendano un altro che li costringa in bagno per un mese.

martedì 4 maggio 2010

Ohana

Vi prego di notare la raffinata citazione da Lilo&Stitch: Ohana significa famiglia. Famiglia significa che nessuno viene abbandonato o dimenticato.
Per quanto mi riguarda, la mia famiglia ha otto membri: io, mio marito, i miei due figli e le mie quattro gatte. Questo non significa che le mie gatte siano sullo stesso piano dei miei figli: la gerarchia in caso di emergenza sarebbe prima i figli (e spero di non dover mai scegliere tra i due), poi mio marito, infine le gatte. Il resto del mondo viene dopo, e mi dispiace per chi potrebbe sentirsi offeso a sapere che salverei prima una mia gatta.
No, in realtà ci sarebbe un'appendice: il mio gatto Orsino, che non so se sia morto o ancora vivo. Ormai è scomparso da 4 anni, ma mi capita spesso di sognare il suo ritorno a casa. Così come mi capita spesso di sognare Sissi, il mio vecchio cane morto nell 2001, che ringhia a Luca o mi capita di sognare mia nonna Agnese che riesce a conoscere i miei bambini.

Recentemente, il mio preside si è trovato in una situazione che mi ha fatto riflettere sulla mia: il suo vecchio cane, da tempo malato di tumore, è stato soppresso perché era in condizioni disperate. Lui si è assentato spesso per portarlo in una clinica specializzata e, quando il cane è morto, tutta la sua famiglia si è riunita per vederlo un'ultima volta e seppellirlo.
A chi cercava il preside, abbiamo risposto che era assente per un lutto in famiglia. E ci sentivamo a disagio nel dirlo, perché ci sembrava una mezza verità: da un lato capivamo che la morte di quel cane era un vero lutto per loro, dall'altro sapevamo che molti avrebbero trovato esagerata la definizione di lutto per un cane e che nessun datore di lavoro concederebbe il congedo per seppellire un animale.
Io stessa mi sono trovata diverse volte in questo dilemma. La prima volta fu quando, nel 1992, passai tutta una giornata dalle veterinarie studiando Catullo per un'interrogazione del giorno dopo: credevo che la mia prof, che poi ho scoperto essere la moglie del mio attuale preside, non avrebbe capito se mi fossi presentata impreparata. Il fatto è che troppo spesso ci scordiamo che i prof sono esseri umani come noi.
E poi ricordo le giornate passate a studiare per l'ultimo esame accanto a una Sissi operata di tumore, la notte di corsa al Pronto Soccorso per la mia gatta Bianca (non avevo sospettato che fosse mastite, temevo un'infezione uterina perché aveva appena partorito), lo spavento per la mandibola lussata della Quarta, l'infinita camurria della cistite della Bigia.
Ieri ho portato la Bianca dalle veterinarie, perché era molto dimagrita in pochi giorni e aveva un atteggiamento strano (notato da Luca: io mi ero solo accorta che non la vedevo tanto in casa). Le hanno trovato il fegato molto ingrossato e l'hanno ricoverata. Non so ancora se sia grave o no, lo scopriremo domani quando arriveranno le analisi.
I bambini continuano a chiedermi di lei: dov'è, con chi è, perché l'ho portata via. Spero che la possano rivedere presto, anche se i precedenti con la Bigia e la Quarta dovrebbero averli rassicurati sul fatto che non abbandono i gatti in autostrada.
Io spero che tutte queste vicissitudini e queste emorragie al portafogli possano almeno insegnare ai miei figli il significato del sentirsi una famiglia, per quanto strana: un luogo dell'anima dove ognuno porta il suo contributo, per quanto piccolo, e non viene mai abbandonato.

lunedì 3 maggio 2010

Come si fa?

Badate bene che la domanda del titolo non è né polemica né retorica, mi interessa davvero sapere come fate voi che lo fate.
Che cosa?, direte voi. Andiamo con ordine.
Daniela si chiede come fanno le famiglie di homeschooler full time a far quadrare tutto: figli, soldi, tempo, eccetera. Le rispondono in molte, ed è bello che lo facciano con serenità e senso pratico.
Io vado oltre. Non lo chiedo solo alle homeschooler, lo chiedo a tutte quelle persone che fanno le casalinghe: donne, quasi esclusivamente, anche se il mio sogno sarebbe che passasse di qui un casalingo.
Ripeto, non lo faccio con intento polemico. È che proprio io ce la farei solo in determinate situazioni di strasicurezza, tipo se mio marito fosse statale (ma con uno stipendio buono, non a 1000 euro al mese come me) e se fosse un immortale (possibilmente non succhiasangue: sono già anemica di mio, grazie).
Sì, so che, alla luce dei miei commenti qui, potrebbe sembrare che io non sia così desiderosa di lavorare. La verità è che non lo desidero affatto, ma senza lavoro niente stipendio e al mio stipendio non rinuncerei mai, fosse anche solo per scaramanzia.
Oltretutto, al di là di tutte le belle parole sullo stare con i bambini forever and ever, rinuncerei a un lavoro che non mi entusiasma ma che ha lati positivi (e margini di miglioramento di carriera e mansioni, un domani) per svolgerne uno estremamente pesante, noioso, ripetitivo e alienante: come potrei pensare di dividermi i compiti domestici con mio marito, se facessi la casalinga? Ora non gli porto a casa le pratiche del lavoro, sono io quella pagata per svolgerlo.
Mi si può dire: eh, ma stare a casa a fare la casalinga non significa solo questo, c'è il contatto con i bambini. Sì, ma per quanto tempo? Io non me la sono mai sentita di fare la homeschooler e di sostituirmi alla scuola dell'obbligo, e qui le classi di 24 ore settimanali non le chiede nessuno, tocca ricadere nelle 40: il massimo che posso fare è chiedere un part time all'80% per cercare di non usufruire di pre e post scuola. Se fossi a casa, avrei ampi spazi di tempo durante i quali non potrei sottrarmi alle pulizie e al riordino che la mia casa necessita, come invece faccio ora con la nota tecnica dello scaricabarile. Mi toccherebbe pure infrangere un tabù della mia religione e riprendere a stirare.
Oltretutto, mi ha colpita la frase di una delle commentatrici: mi occupo del budget di spesa, mentre mio marito si occupa delle entrate. Ecco, a me questa cosa metterebbe un'ansia pazzesca: essere io l'unica responsabile di una qualsiasi cosa necessaria alla vita (es. allattamento, soldi) mi schiaccia. Preferisco che le responsabilità siano condivise, per non sentirmi indispensabile. E questo lo dico mettendomi nei panni sia di chi gestisce le uscite sia di chi procura le entrate, non crediate.
Non credo inoltre che sarei serena nel rapporto con un marito che porta su di sé il peso del procacciatore di cibo: mi sentirei in colpa ogni volta che lui mette su una pentola d'acqua o aiuta a sparecchiare, nella migliore delle ipotesi lo ridurrei a un principino viziato. E come ne uscirebbe la mia immagine con i miei figli? Come interpreterebbero i ruoli di genere? Come convincerei mio figlio maschio a contribuire in casa e a considerare la parità?
E che cosa succederebbe se mio marito perdesse il lavoro? Qualche anno fa, l'azienda di mio padre ha chiuso, i creditori ci hanno lasciato le mutande per pudore ma gli avvocati pudore non ne hanno: come avrebbero tirato avanti i miei senza lo stipendio di mia madre?
Dall'altro lato, se mio marito si trovasse senza lavoro e decidessimo che va bene così, che ce la facciamo, mi darebbe fastidio mantenere un casalingo? Credo che non me ne darebbe assolutamente, anzi, magari ne sarei anche contenta.
Insomma, le mie idee sulla questione sono confuse. Raccontatemi come fate voi, se vi va, ditemi se vi siete fatte tutte le menate di cui sopra e come le avete risolte. Ah, e fatemi una piccola gentilezza: non vergognatevi a dire che siete ricchi di famiglia, se lo siete. Non è una colpa, ma lo è fingere di non esserlo, alla faccia di quelli che si buttano senza paracadute tutti i giorni.