giovedì 30 aprile 2009

Aspirational

Oggi è stata una giornata di brutte notizie in crescendo: prima la biocesta mancata, poi una bella multa per eccesso di velocità (andavamo a 79 all'ora in un tratto dove il limite era 70) e infine la notizia che una mia cara amica ha abortito per la seconda volta. Ed è stata messa in camera con 3 felici puerpere con altrettanti felici neonati.
Ecco, non so se è corretto, ma la prima parola che non sia una parolaccia che mi è venuta in mente è: aspirational. Quelle mamme felici rappresentano l'aspirational di una persona che invece il suo bambino l'ha perso. Quanto può essere brutto confrontarsi con i propri desideri!
Senza arrivare a un caso così doloroso, ho pensato che spesso il confronto con le proprie aspirazioni è irritante e frustrante.

Primo esempio: pubblicità del caffè Hag. Lo scrittore dice che di sera "scrivere diventa un piacere" (e prima cosa sarebbe? lavoro in fonderia?). Sinceramente non ho capito il nesso tra il voler scrivere di sera e il prendere un caffè decaffeinato (insomma, io di caffeina ne so poco perché sono intollerante, ma se voglio restare sveglia fino a tardi prendo un caffè con caffeina, no?), ma non è questo che mi interessa.
Mi irrita vedere uno che fa il lavoro che avrei voluto sempre fare messo lì a farmi credere prima di tutto che uno che scrive faccia solo quello (lo faranno gli scrittori americani, ma in Italia non ne conosco uno la cui giornata sia scrivere da mattina a sera con un mercatino e una passeggiata sul mare in mezzo). Mi irrita sentirgli pronunciare la fatidica frase sulla scrittura che diventa un piacere di sera (anch'io ho scritto su commissione, è stato il mio lavoro per diversi anni, e quello è anche stressante, ma scrivere anche tutto il giorno per qualcosa di creativo e di mio non è mai meno che un piacere, altrimenti uno andrebbe a fare qualcosa di più redditizio, almeno in Italia). Mi irrita pensare di essere accomunata a questa parodia di scrittore dal consumo di caffè decaffeinato.
Quindi non compro più Hag.

Secondo esempio, non tratto dalla pubblicità: conosco una mamma che ha una vita abbastanza paragonabile alla mia (lei non ha attività fuori casa ma viaggia per andare al lavoro, ha due bambini più o meno dell'età e del sesso dei miei, un marito con orari simili a quelli del mio, una casa grande più o meno come la mia, ha un gatto solo ma ha un giardino da curare e spesso amici a cena). Andare a casa sua è una tortura per me, perché vedo quello che vorrei ma che non riesco a raggiungere: la casa in una parvenza di ordine e decisamente pulita, i giochi dei bambini ben disposti e integri, il cesto della biancheria che non straborda, persino il tempo di fabbricare lavoretti con o per i bambini.
So che a molte persone questo ritratto sembrerà irrealistico e antipatico, eppure la mia amica è reale e simpatica. Io non la invidio, ma mi sento frustrata perché non riesco ad arrivare al suo livello di organizzazione ed efficienza.

Infine, arriviamo alle famose donne irraggiungibili della pubblicità. Che, tendenzialmente, mi risultano indifferenti, anche perché i prodotti per la casa non li compro certo sulla base della pubblicità, che vedo rarissimamente e non riguarda né prodotti bio né prodotti discount, che io consumo prevalentemente.
Quando mi irritano, allora? Quando mi pungono sul vivo. Non me ne frega niente di essere alta, filiforme e indossare tacchi 12 mentre pulisco il pavimento. Ma mi brucia un po' che la mamma al computer di una certa pubblicità venga indotta ad abbandonare la sua attività da figli affamati e marito incapace di accendere il gas. Mi brucia che lo scrittore sia antipatico e pigro. Mi brucia che la madre di una pubblicità di cucine scuota soavemente i riccioli rossi bagnati di pioggia anziché essere incazzata nera per essersi beccata un acquazzone alla fine di una giornata di lavoro e dopo aver prelevato i bambini che sicuramente si beccheranno un bel raffreddore per essersi bagnati. Mi brucia non somigliare neppure lontanamente alla donna che mi piacerebbe essere, e vedermelo sottolineare brutalmente sotto gli occhi.
Ma forse sono solo triste e mestruata, e non ho voglia di passare un weekend di sole a casa con la famiglia ammalata.

martedì 28 aprile 2009

La bestia nel cuore

Circa una decina di anni fa, facevo un sogno ricorrente: ero in una situazione di pericolo tipo film d'azione, c'era con me anche il fidanzato dell'epoca o un'amica e io, per risolvere la situazione e tirarci fuori dai guai, mi trasformavo in una belva tipo licantropo. Piccolo particolare: prima di trasformarmi, cercavo di tramortire o sviare le persone che erano con me, perché non vedessero che cosa potevo diventare.
Era l'epoca in cui cercavo di smussare sempre, di non litigare, di capire le ragioni dell'altro fino alla nausea.
Poi io e quel fidanzato ci siamo lasciati senza che io conservassi la minima stima per lui. Alcune amiche, una in particolare, si sono dileguate nel momento in cui avrei avuto più bisogno di loro. E io ho deciso di non fingere mai più di essere ciò che non sono: ho deciso di dire sempre la mia, di esternare i miei sentimenti, di capire le ragioni dell'altro solo se l'altro si degna almeno di espormele.
Questo ha nociuto non tanto alla mia vita sociale (ho amiche più intelligenti e coraggiose di quelle di allora), quanto alla mia vita amorosa: non nascondendo più nulla di me e non essendo così gnocca da farli ragionare solo con gli ormoni, risultavo troppo impegnativa per il maschio medio. Che, si sa, viene spaventato da una donna intelligente e sincera, salvo poi farsi accalappiare da una iena travestita da gattamorta.
E' anche vero che volevo un uomo intelligente e coraggioso, e quindi già il fatto di porre un filtro del genere all'ingresso aiutava a non perdere tempo.
Infine, come tutti sanno, è arrivato Luca. Bello incosciente, se n'è fregato della mia intelligenza e della mia emancipazione: ha visto solo me, nuda e cruda. Ha deciso che gli piacevo ed è restato.
Se oggi rifacessi quel sogno di tanti anni fa, penso che non mi farei neanche un problema a far vedere la trasformazione a Luca. Anzi, probabilmente lo vedrei trasformarsi anche lui, e lottare insieme a me.
Questa è la parte positiva.

La parte negativa è che questa bestia vive in me anche nel rapporto con i miei figli. E' quella parte che mi impedisce di essere tutta paziente e amorosa e disponibile. E' quella parte che mi ha impedito di trarre piacere dalla gravidanza o dall'allattamento, che me li ha fatti vivere come una pesante limitazione della mia integrità personale. E' quella parte che ora, mentre i bambini dormono, mi tiene al computer a scrivere, invece di lavare i piatti o rassettare di sotto o mettere su una lavatrice. E' quella parte che ogni tanto mi fa dare una zampata ai miei piccoli, quando varcano un certo limite.
Il fatto è che questa bestia vive di istinti primari, di egoismo. E, per quanto io tenti di razionalizzarla, lei ribatte a tono, mostrandomi l'esempio di Madre Natura. Nella figura della mia gatta Bianca, madre amorosa per eccellenza ma capace anche di prendere un gattino ribelle per la collottola e inchiodarlo a terra finché non si lascia lavare. O di saltare sul mobile più alto per essere lasciata in pace dai gattini che miagolano appena sotto.
Il dilemma è tutto qui: reprimere la bestia o no? Sforzarsi di somigliare a quella madre tutta amore, comprensione e ragionamenti che io non sono o decidere di offrire ai miei figli la mia immagine imperfetta ma vera?
Mi rendo conto che potrebbe sembrare un ottimo alibi per smettere di migliorare, ma non è questo il punto. Il punto è che, anche se avessi a disposizione mille anni per questo percorso, l'amore non basterebbe comunque. Per me non esiste un amore abbastanza grande da permettermi di non avvertire il fastidio per la limitazione della mia libertà o la fatica fisica o il dispetto per il conflitto tra le nostre opposte intenzioni. E non posso permettermi di ignorare questi disturbi, perché si accumulerebbero ed esploderei in modo molto pericoloso.
Quindi, assodato che la bestia vive dentro di me e non può essere esorcizzata dalle buone intenzioni dei benpensanti, rivendico il diritto di mostrare ai miei figli anche la mia parte meno gradevole, meno civilizzata e forse meno umana. Rivendico il diritto di arrabbiarmi con loro, di sottrarmi alle loro attenzioni, di affidarli ad altri per farmi nient'altro che i fatti miei, di non pensare sempre alle conseguenze di ogni mia minima azione o parola, di non dover essere sempre un esempio. Non tutti i giorni, per carità: solo quando non ce la faccio più.
L'alternativa è prendere ansiolitici. Ma direi che una in famiglia basta.

lunedì 27 aprile 2009

Genova blues

Se questo è un sogno, non svegliatemi: questo ho pensato l'altro ieri, mentre Amelia rincorreva uno scoiattolo nel parco di Nervi ed Ettore si rotolava nell'erba. C'era un sole splendido e si sentiva l'odore del mare. E gli scivoli del parco giochi erano fighissimi: se fossimo stati soli li avrei provati anch'io.

Per la primavera, ci siamo fatti un regalo: abbiamo deciso di passare il weekend a Genova. So che non è la stessa cosa che Praga o Parigi, ma avevamo voglia di mare e di spendere poco. Non se ne abbiano a male gli amici di Genova, che non ho avvisato, ma avevamo anche tanta voglia di fare alcune cose e di vedere alcuni posti senza vincolare ed essere vincolati da altre persone.
Inoltre, volevo proprio rivedere Genova per rinfrescare quelle che nella mia mente sono anche le ambientazioni di Viola e dare anche a Luca l'idea dei luoghi dove si svolgono le mie storie.

Siamo arrivati venerdì nel tardo pomeriggio, percorrendo i vicoli a passo garibaldino, con un passeggino e uno zaino da montagna a testa. Siamo entrati in albergo, un po' timorosi per quell'unica stella, e invece ci siamo trovati benissimo: proprietari ospitali e gentili, camere spaziose e pulite, ottima colazione, prezzo buono. Certo, ci sono da fare tante scale e nei vicoli la vista non è granché. Ma la posizione era impagabile, molto comoda.
Sabato il tempo ci ha fatto grazia di una bella giornata e abbiamo deciso di passarla al mare: Nervi e Boccadasse. Come quando vivevo a Genova o, più tardi, andavo ospite della mia amica P.
Mentre, sulla spiaggia di Boccadasse, guardavo i miei bambini giocare con i sassi, ho pensato: va' che culo i genovesi, nello stesso tempo in cui io vado a Pavia loro vanno in spiaggia. OK, non è un pensiero molto originale, ma tant'è.
E mi sono messa a fantasticare su come sarebbe la mia vita se vivessi ancora nell'appartamento di via Groppallo, ma con la mia famiglia: farei una fatica porca a parcheggiare l'auto, ammesso che ne avessi una, e spingere un passeggino su quella salita sarebbe l'equivalente di una seduta di GAG, ma ci pensi che bello poter portare i bambini al mare quando vuoi, anche d'inverno, anche se fa brutto ma c'è caldo? Lo so che il genovese medio mi risponderà: ma il mare vicino a Genova è sporco, fa schifo almeno fino a Bogliasco. E io da buona pavese ribatterò: perché secondo voi il Ticino è tanto pulito?
Quello che mi manca di più non è il contatto con l'acqua: è il clima, atmosferico e psicologico. Il fatto che un primo novembre di 10 anni fa, mentre a Pavia si tirava fuori il cappotto, io a Genova andavo sugli scogli in maglietta leggera. Oppure che, mentre a Genova da maggio a settembre si mangia rigorosamente fuori, a Pavia si cercano locali con l'aria condizionata per via delle zanzare. Mi mancano le pescherie, il mugugno genovese, piazza Caricamento con i suoi tipacci ma anche l'Acquario e il Suq a giugno. Mi mancano i vicoli e via Venti e la Fiera di San Nicola.
Essenzialmente, mi manca il fatto di non essere nata a Genova e di non essere riuscita a farci nascere i miei figli.

giovedì 23 aprile 2009

No kids? Anche no

Chi mi conosce da tempo lo sa: prima di incontrare Luca, non ho mai, mai, MAI desiderato avere figli. Meno che mai avere un bambino.
(Apro una parentesi riguardo alla differenza tra figlio e bambino: figlio è una persona nata da me e che incidentalmente attraversa le fasi neonato-bambino-ragazzo-adulto, bambino è un essere tra gli 0 e i 10-12 anni. Chiusa la parentesi)
Anche dopo aver conosciuto Luca e distintamente pensato "con questo ci faccio una figlia", ho sempre evitato la compagnia dei bambini. La evito anche adesso, a dire il vero.
Alcuni bambini mi possono piacere, ma non è il bambino a piacermi, è la persona che ora è in quell'età a piacermi. Per me dire "mi piacciono i bambini" sarebbe come dire "mi piace l'umanità": gli esseri umani sono troppo diversi da loro per poter dire che mi piacciono globalmente.
I miei bambini mi piacciono? Tendenzialmente sì, anche se in Amelia ci sono cose che mi ricordano troppo mia madre (in negativo) e quindi non so se ci saremo poi tanto simpatiche negli anni a venire.
So che sto bene con loro, che sono contenta di averli messi al mondo. So di avere addosso un'immensa pressione per il fatto di essere madre, ma insomma, da grandi poteri derivano grandi responsabilità e grandi magagne: ho nelle mie mani il futuro di due persone, mica di due carciofi. So anche che gran parte del mio benessere lo devo a Luca e al nostro lavoro di squadra, ma insomma, se ho scelto lui e non un altro un motivo ci sarà stato: se vuoi vincere il campionato, ti compri dei giocatori validi, mica dei brocchi. So anche che il fatto di essere madre mi chiuderà molte porte: pazienza, vorrà dire che le dovrò sfondare o entrare dalla finestra.
Questo per dire: mobbasta piangerci addosso, signore!
Ci sarà chi ha avuto i bambini per sbaglio, chi li ha fatti con la persona sbagliata, chi ha perso il lavoro per colpa dei figli, chi ha dovuto rinunciare a qualche suo sogno per via dei figli. OK, assodato questo, tiriamoci una riga sotto e ricominciamo da zero.
Io per prima: per "colpa" dei miei figli faccio un lavoro che proprio non mi dà soddisfazioni, ma è sicuro e tranquillo. Se potessi tornare indietro, rinuncerei ai figli per fare un lavoro più soddisfacente? Assolutamente no. Dovrei tornare indietro fino al 2003 e trovare un modo per evitare di incontrare Luca. Perché, nel momento in cui mi sono innamorata di lui, ho dato la priorità al mio mondo familiare rispetto a quello del lavoro.
Poi: OK che chiunque ti incontri si sente in diritto di criticarti, certi genitori che sei costretta a frequentare non li saluteresti neanche sotto tortura, le pubblicità ti propongono uno stereotipo zuccheroso che dà il diabete e gli specialisti dell'infanzia ti trattano come un pidocchio.
E allora? Dovrei andare avanti tutta la vita ad arrovellarmi su tutte le persone che mi hanno apertamente biasimata e maltrattata per il fatto che non ho allattato? Devo continuamente lamentarmi di come mi vedono i pubblicitari? Anche qui, un po' di repulisti. Impariamo un po' a fregarcene, a vedere solo se stiamo bene con noi stesse e con la nostra famiglia. Se c'è qualcosa che non ci va, lavoriamo per cambiarlo. Rimanere a lamentarci è come vedere una ragnatela, continuare a dire che c'è ed è brutta e non toglierla mai.
Soprattutto, secondo me, diamo il buon esempio. Dimostriamo col nostro operato che si può uscire a cena, andare a teatro o al cinema o a un concerto, fare weekend fuori casa, andare a vedere una mostra, visitare un vivaio o un parco, persino fare un brunch fighetto con musica classica. Il tutto con i bambini. Che non sono terribili mostri dediti solo ai cartoni animati e ai giocattoli: sono persone i cui interessi possono spaziare lontano, esattamente come i nostri. Aiutiamoli a diventare persone, e non quegli stessi stereotipi in cui ci sentiamo costrette noi stesse. Facciamolo per loro e per noi, che, sentendoci più libere, saremo più felici.

martedì 21 aprile 2009

Il mestiere di mamma

In questi giorni sono stata a casa con i miei bambini (malati, purtroppo). Da giovedì 9 a ieri. 12 giorni dedicati solo a loro, che stavano abbastanza bene da non gemere a letto ma non abbastanza per tornare a scuola / nido (in realtà quello che stava peggio era Ettore, ma, siccome ero a casa per lui, ho pensato che alla tosse di Amelia potesse far bene stare a casa).
Il fatto che fossero malati mi metteva un'altra limitazione: anche nei giorni belli, non potevamo uscire. E quindi? Quindi sono stata benissimo.

Certo, non è stata una passeggiata: organizzare la giornata a casa dei bambini richiede lo stesso impegno di un lavoro in proprio. Io ho deciso di dedicarci alla cucina, e in particolare ai dolci, che non mi sono mai venuti troppo bene: un giorno ho fatto dei biscotti ai corn flakes, il giorno dopo un plumcake cannella e vaniglia, quelli dopo ancora ho sperimentato la ricetta dei tarallucci MB, poi un sabato mattina ho fatto i pancake (quelli che nei film americani vengono inondati di sciroppo d'acero), grazie a Luca che mi ha fatto da impastatrice (impastatore?) abbiamo provato a fare anche le macine MB (ma senza la panna non vengono tanto simili). Insomma, principalmente siamo ingrassati.
E poi ho guardato i miei bambini giocare insieme, ho giocato con loro, li ho coccolati, ho cantato e ballato con loro e per loro, abbiamo giocato con le gatte e le abbiamo spupazzate. Ho avuto diversi infarti per le prodezze di arrampicatore di Ettore e mi sono un po' arrabbiata per gli eccessi artistici di Amelia.
Abbiamo riposato: loro, probabilmente a causa della malattia o del tempo, hanno fatto lunghi sonnellini nel primo pomeriggio, mentre io scrivevo e ogni tanto maledicevo i vicini che in questo periodo stanno pazziando più del solito. Luca, nel weekend, ha letto i miei soggetti per un ipotetico primo anno di Viola e si è divertito. Abbiamo composto il pezzo di percussioni che le mie allieve porteranno al saggio di fine anno. Abbiamo anche fatto qualcos'altro, ma quelli sono affari nostri.

Tutta questa spatafiata per dire cosa? Che essere mamma a tempo pieno si può. Se non lo si intende come "dedicarsi completamente ai figli", ma come "dedicare una fetta cospicua del mio tempo ai figli, senza dimenticare che nella vita esiste altro".
Si può ridere come pazze davanti a un bambino che scopre la magia della tela di ragno, ma poi essere ben felici che lo stesso bambino dorma due ore di fila, per finire un episodio di Viola. Si può leggere le fiabe di Calvino alla bimba grande ma poi immergersi nella lettura di Dampyr.
In definitiva, credo che, se avessi i famosi soldi, io mamma a tempo pieno lo sarei volentieri. Almeno in questa fase, poi chissà. Probabilmente, se avessi i famosi soldi, proverei anche a buttarmi nell'homeschooling, o forse, come già penso di fare più avanti, in un homeschooling a tempo parziale, che permetta loro comunque di conoscere la realtà della scuola.
Una cosa non cambierebbe: la mia casa continuerebbe ad essere sporca e in disordine. Ma magari, se avessi i famosi soldi, mi piglierei anche una colf.

domenica 19 aprile 2009

Dio li fa e poi...

Ho incontrato il mito di Lilith da ragazzina, tipo a 12-13 anni. Devo averne letto sull'aggiornamento annuale che ricevevamo da un'enciclopedia comprata tempo prima. Tipo che il Papa quell'anno aveva riconfermato che il diavolo esiste e si era deciso di dedicare un articolo alla demonologia, argomento che in realtà tira sempre.
La versione riportata da quell'articolo di 20 anni fa era quella più in voga ai giorni nostri: Lilith venne creata pari ad Adamo, si rifiutò di sottomettersi al potere maschile e quindi, invocando il nome ineffabile del Signore, acquistò il potere di volare fuori dall'Eden, dove si unì agli angeli ribelli. Da allora, Lilith si vendica dei discendenti di Adamo, seducendoli col suo aspetto di maliarda e portandoli alla perdizione.
Nella mia ingenuità di preadolescente non certo precoce, scrissi una storia che si serviva di questo mito, e meno male che, nei miei molti traslochi, ho avuto modo di cestinarla.
Nella mia storia, Lilith era una creatura pura, etica, civilizzata. All'epoca l'aspetto della feroce assassina di neonati disturbava la mia visione, e quindi lo accantonavo.

Crescendo, ho immaginato Lilith come la prima vampira (non sono l'unica, lo so bene), in un breve ciclo di racconti che mi tengo ben stretti, in questo tempo in cui i vampiri sono troppo di moda.
Peraltro, apro una parentesi: anche questi vampiri degli ultimi tempi, da Twilight a Marked, sono come la mia Lilith dell'adolescenza. Buoni o cattivi, sono creature civili, anche quando sono malvagi. Sono come gli adolescenti vorrebbero essere, senza aspetti poco "cool" come l'abitudine di mangiare bambini o quella di partorire demoni generati dal seme disperso con la masturbazione. Chiusa la parentesi.

Oggi, che sono più colta, più vecchia e soprattutto più in contatto con la mia natura animalesca grazie alla maternità e al luogo dove vivo, forse ho capito il senso di questo mito.
La società, da sempre, vorrebbe che tutti noi (non solo le donne) fossimo Eva: sottomessa, pronta a prendersi tutte le colpe (se Adamo non avesse voluto mangiare il frutto dell'albero del bene e del male, non avrebbe dovuto fare altro che rifiutare, mica è stato ingannato!), rassegnata alla condanna divina e alla collera di chi ha più potere di lei. Se fossimo tutti così, quanto saremmo facili da manipolare!
Lilith invece è ingestibile: infrange tutte le leggi e tutti i tabù, anche in modo contraddittorio (uccide i neonati umani ma lei stessa genera demoni dal seme di Adamo e dai suoi discendenti, per esempio). Inoltre, sfugge alla collera divina: non avendo mangiato il frutto proibito ed essendo uscita dall'Eden prima del peccato originale, è immortale. Quando Dio si arrabbia perché lei e Samael (uno dei nomi con cui viene indicato il suo sposo demoniaco) stanno mettendo al mondo troppi figli, è Samael ad essere castrato, non Lilith.
Sembra insomma che l'autorità non abbia nessun potere su di lei.

Negli anni '60-'70, Lilith venne presa come simbolo dalle femministe. Oggi penso che potrebbe essere l'emblema di tutte quelle persone che vogliono pensare con la propria testa.

domenica 12 aprile 2009

Ancora sulla scrittura

Quando mio marito mi conobbe, cinque anni e mezzo fa, non credo che fosse pienamente consapevole del guaio in cui si andava a cacciare: sapeva che ero una ballerina principiante e dilettante, sapeva che da 6 mesi cercavo di arrabattarmi per trovare un posto nella società che mi aveva assorbita, sapeva anche che amavo i gatti e che prima o poi gliene sarebbe arrivato in casa uno (UNO?), ma non credo che avesse capito che razza di creatura complicata e ferita gli fosse capitata tra le mani.
Sicuramente di me non conosceva un aspetto: quello della scrittura. Perché, quando mi innamoro, la mia vena tende a prosciugarsi all'istante. Del resto, sono convinta che la creatività sia una questione di amore e che, se sei assorbita da un nuovo progetto che te ne richiede (un fidanzato, un nuovo lavoro, un figlio), tutte le tue energie creative sono lì e basta. Poi si ridistribuiscono.
Pian piano, gli suggerii che poteva leggere uno dei miei racconti. E gli diedi forse il più brutto. Non solo perché ci sono nodi che non sono riuscita a sciogliere in modo efficiente, ma anche perché mostrava la parte più nera della mia anima: l'amore per la vendetta, l'ambizione, la freddezza.
Non mi ha mai detto chiaramente che non gli è piaciuto, ma di sicuro l'ha trovato troppo cupo.
Mentre ero incinta di Amelia, sono riuscita a scrivere due racconti. Uno forse un po' troppo contorto e l'altro non male. Da qualche tempo, ho il desiderio di tornare su quest'ultimo racconto, magari in forma di fumetto. Ho persino proposto alla mia maestra di danza (che è anche pittrice e scultrice, quando riesce) di provare a trarne qualche tavola (che poi il progetto sia irrealistico perché lei ha appena il tempo per andare in bagno è tutta un'altra storia).
Così Luca si è incuriosito, l'ha voluto leggere. Oggi, mentre poltrivamo dai miei dopo il pranzo di Pasqua (grazie mamma), l'ha finito. Gli è piaciuto (e, almeno a giudicare dal tempo che ci ha messo per finirlo, non lo dice solo per farmi piacere). E per la prima volta, mentre prendevamo le vie di campagna più lunghe per lasciare che i bambini dormissero, ho parlato con mio marito di un mio racconto e dei miei progetti per il suo sviluppo. L'ho sentito scettico su alcune mie idee e possibilista su altre. L'ho sentito vicino su un tema che prima non ci aveva mai accomunati.
Ed è stata una bella Pasqua, nonostante tutti i malanni.

sabato 11 aprile 2009

L'importante è partecipare

Per lungo tempo, a scuola, ho odiato l'ora di educazione fisica: le attività che ci facevano fare erano noiose e faticose (per me, almeno, che di mio non facevo nessuno sport), e il giorno dopo mi rimaneva il dolore dell'acido lattico. Ma forse, la mia avversione aveva una radice più profonda: essendo abituata ad eccellere senza grosso sforzo, l'idea di faticare per non ottenere neanche chissà quale risultato mi irritava.
Finito il liceo, sono rimasta completamente inattiva per 6 anni. Poi, grazie a una mia amica innamorata del flamenco, mi sono accostata alla danza. La danza del ventre mi attirava da qualche tempo, a livello però puramente ipotetico: era bella da vedere, sensuale e faceva bene alla schiena.
A gennaio 2002, in un capannone freddo piastrellato di mattonelle, cominciò la mia passione per la danza orientale. Nei primi tempi, imparavo velocemente, ma non sono mai stata "la prima della classe". Col tempo, e cambiando maestra, mi è stato sempre più chiaro che, anche se a molte mie mancanze posso sopperire con la memoria e la teoria e il senso del ritmo, fisicamente sono limitata, non so se perché ho iniziato troppo tardi o se proprio non sono portata ad andare oltre un certo limite.
Oggi il mio rapporto con la danza orientale ha compiuto 7 anni, e la passione non accenna a calare. A volte mi chiedo perché accanirmi su una strada in cui non posso eccellere e di cui non posso fare la mia professione, perché spenderci dei soldi e del tempo e delle energie.
Così, di botto, mi vien da pensare: perché mi ha insegnato l'umiltà e il valore della fatica. Anche se non sono una dea, mi rendo conto di quanto sono migliorata e di quanto margine c'è ancora in me, e questo è fondamentale in tutti gli aspetti della vita. Anzi, spesso vorrei proiettare questa consapevolezza su alcune delle mie allieve, che, forti di precedenti esperienze di danza (tipo latino o jazz), si ostinano a forzare inesistenti analogie tra la loro esperienza e i miei insegnamenti, in modo da faticare di meno.
La seconda cosa che mi viene da pensare è che ho imparato che, per divertirsi, non c'è bisogno di essere i più bravi. Basta essere bravi abbastanza da poter ballare col gruppo, senza competizione. Come quando si suona in un'orchestra.
La terza cosa è che la danza, nel mio caso, è come un gioco a squadre: se sai che cosa è giusto fare ma le altre del tuo gruppo fanno qualcosa di diverso, è giusto seguirle. Non per fare come "il gregge", ma perché l'armonia di gruppo è più importante del puntiglio. Oppure: se conosci perfettamente i passi ma non riesci a rispettare la tua posizione nel gruppo o continui a scontrarti con le compagne, non stai ballando bene e danneggi le tue compagne.
E poi, ci sarebbero molti altri spunti di riflessione: dal modo in cui la danza unisce persone completamente diverse alla bellezza del conoscere nuove interpretazione, senza giudicarle e senza sentirsi depositari della "verità", la possibilità di rimettersi sempre in gioco con maestri diversi... e poi c'è la sensualità.
Per me la danza del ventre si è da tempo spogliata di tutti quegli orpelli da harem/cabaret di cui il mondo occidentale la riveste. Sento il mio corpo, me ne approprio (oddio non sempre...), lo uso per esprimermi e creare, OK. Ma affermare che la danza del ventre è sensuale a priori sarebbe come pensare che tutte le scrittrici sono come Anais Nin e tutti i fumettisti come Manara: in ogni forma creativa che si rispetti c'è la possibilità di esprimere un'amplissima gamma di sensazioni.
Persino il burlesque, lanciato dagli spogliarelli di Dita Von Teese, può essere interpretato in molti modi: recentemente ho visto uno spettacolo in cui si puntava sull'ironia e il divertimento, e senza scoprire un centimetro di pelle in più del viso e delle mani.
Così, anche nella danza del ventre, la sensualità a tutti i costi appartiene soltanto alle poverette che si esibiscono in localacci poco più che da strip tease o a quelle che "vanno a danza del ventre" per accalappiare il marito o il fidanzato.
Tra i molti artisti che ho visto in questi 7 anni, ce ne sono stati alcuni che si sono presentati come magici sceicchi da Mille e una notte, altre che hanno calcato la scena con costumi quasi adamitici e boa di struzzo, altre ancora che hanno valorizzato il folklore, altre ancora che hanno esplorato ogni aspetto della danza per trasmettere un'amplissima gamma di emozioni.
E io che cosa voglio esprimere quando ballo? Come ho detto, non sono bravissima, anche perché mi manca una grande parte di lavoro sull'espressione e sulla comunicazione col pubblico. Però spero che sempre di più si avverta il mio divertimento, la mia gioia, il senso di liberazione che la danza mi dà.
Vorrei che si capisse che sono felice per il solo fatto di esserci.

La mia vita in fumetto

Ho cominciato a leggere fumetti da piccolissima, con Topolino, prima ancora di imparare a leggere: c'è una raffinata foto di me sul water con un albo in mano, tanto per testimoniare.

Crescendo, ho scoperto anche il Corriere dei piccoli e altri fumetti per ragazzi, più o meno conosciuti. E ho letto alcuni Tex di mio padre.

Stramanente, al liceo non sono diventata fan di Dylan Dog, come molte mie compagne. Sarà che Rupert Everett, il modello usato da Sclavi per il suo protagonista, era l'idolo della mia compagna di banco e io ne avevo fin sopra le orecchie di lui.

I fumetti sono scomparsi dalla mia vita fino al tempo del lavoro: mi parevano una cosa lontana da me, forse un po' da ragazzini, niente che mi potesse interessare. E invece.

Invece, durante un interminabile viaggio dall'aeroporto di Genova a Sanremo, il mio capo di allora mi mise una pulce nell'orecchio riguardo un fumetto che mi sarebbe potuto interessare, Dago.
Dago racconta la storia di un nobile veneziano, Cesare Renzi, che in seguito al tradimento del suo migliore amico perde tutto e diventa un rinnegato al servizio dei turchi, viaggiando in lungo e in largo nell'Europa del '500.
Mi misi a comprare e a cercare gli albi mensili, che poi scoprii essere fuori dalla continuity e un po' raffazzonati. Comprai gli arretrati di Lanciostory e di Scorpio, su cui venivano pubblicate le storie collegate tra loro. Finalmente, nel 2002, Eura Editoriale si decise a ristampare Dago dal primo numero, e da allora alla fine del mese, dovunque io sia, mi metto in cerca di un'edicola che tenga la Ristampa Dago.

Nel frattempo, stimolata da Dago, mi misi a gironzolare tra i vari mondi bonelliani e manga, scoprendo un mondo decisamente più vivo e non-convenzionale rispetto a quello della narrativa in forma tradizionale. Mi attirava questo mondo più aperto e vitale, ma non sapevo come accostarmici.

Ho avuto anche una parentesi d'autore con i primi due volumi dei Borgia di Manara / Jodorowsky, ma un libro, sia pur bello, ogni 2 anni, non si può trasformare in passione.
Anche Corto Maltese, di cui un periodico pubblicò tutte le storie nel 2006, mi piacque molto. Ma purtroppo 10 albi, pur grandi, finiscono subito.

Poi l'anno scorso un'amica, sapendomi appassionata come lei di storie di vampiri, mi consiglia Dampyr. Io ne avevo sentito parlare, ma, stranamente, non avevo approfondito.
Ne compro un albo arretrato, in una bancarella, e me ne innamoro. Scatta la caccia agli arretrati, su eBay e sulle bancarelle. Mi faccio una scorpacciata di storie, tre mesi di pura delizia.
E, come era successo per Dago, il mio appetito in materia di fumetti cresce: compro qualche manga (tipo Angel Sanctuary, ma non mi prende), qualche numero di Jan Dix (bell'idea, ma con poca anima), valuto Brendon (ma senza grandi risultati), riprendo un numero di Nathan Never (sempre ben fatto), provo Nemrod (bello ma cupissimo).
Infine, una bellissima scoperta: Lilith di Luca Enoch, edito da Bonelli a novembre (tristemente, per il secondo devo aspettare il 13 giugno). Il mito di Lilith mi attira da sempre (ma questo è un altro post) e la storia è davvero intrigante, per non parlare dell'ambientazione del primo albo: la guerra di Troia, quella di Ettore.

E, ora, da incosciente inesperta, sto scrivendo i soggetti per un anno o forse più di serie mensile, dedicata al mio ultimo personaggio, Viola. Negli ultimi 4 giorni, sono riuscita a scrivere un'ora al giorno senza interruzioni, durante il provvidenziale sonno dei bambini malati. Mi è sembrata la cosa più vicina al paradiso che possa esistere.
Certo che se il paradiso bisogna conquistarlo a suon di bronchiti...

venerdì 10 aprile 2009

Che tempo che fa

Ieri c'era il sole, ed io ero piena di idee, di voglia di fare e di muovermi. Infatti ho fatto qualcosa in casa, ho cucinato pranzo e cena con gran gusto, ho giocato con i bambini e ballato con Amelia, sono andata a trovare una mia amica e alla sera non avevo voglia di dormire.
Oggi il cielo è coperto. Sì, ho cucinato, ho anche fatto giocare i bambini con le patate che sbucciavo, ma mi sono aiutata con un DVD, Amelia si è addormentata poco prima di pranzo, mi sono dimenticata di stendere la lavatrice mentre Ettore dormiva e ora sono ben contenta che sia io che Luca abbiamo deciso di prendere una pizza da asporto.
Mi viene in mente che i paesi "nordici" (ma nordici rispetto a cosa?) sono famosi per l'efficienza e la laboriosità dei loro popoli, mentre i paesi "meridionali" sarebbero tradizionalmente dediti all'arte del dolce far niente. Caldo estivo a parte, mi chiedo perché: io sono molto più propensa a poltrire sotto il piumone mentre fuori nevica piuttosto che quando c'è il sole e si sta bene.
Con la primavera e il bel tempo, mi vengono un sacco di idee e di stimoli: penso ai giri che si possono fare, ai concerti estivi all'aperto, alle sagre di paese, al Trebbia di cui ho tanta nostalgia, alle giornate lunghissime, ai cibi freschi e colorati. Stranamente, penso anche a tutto ciò che si potrebbe fare sul lavoro: ieri sera, parlando con Luca, ho praticamente messo giù un ipotetico business plan per la distribuzione del suo yogurt e ho ripensato la campagna di comunicazione dell'azienda dove lavora (Web 2.0, vi pare?).
Insomma, datemi un raggio di sole e vi sposterò il mondo. Forse, ripensandoci, è un bene che ci siano giorni di cielo coperto: per il mondo, s'intende.

martedì 7 aprile 2009

Pensieri e parole

Il mondo dei blog, per come lo vedo e lo frequento io, è un mondo prevalentemente femminile. Non parliamo poi del fenomeno mommyblogging: gli uomini si contano sulla punta delle dita.
Uno di questi è il mitico Professione Papà, che ci offre anche uno sguardo "professionale", dal momento che ha fatto una tesi sul rapporto con il papà "assente" (cosa che lui peraltro non è, bravo!).
L'ultimo invece che ho scoperto è Pensieri di un papà. L'ho letto con partecipazione e tensione, perché questo papà ha provato il dolore più grande di tutti: ha perso una bambina a pochi giorni dalla nascita.
Non che il suo blog sia un continuo rimestare nel dolore, anzi: la cosa che ammiro di più è proprio il fatto di riuscire a non dimenticare ma di raccontare anche una vita normale con due bambine felici e sane.
Però, e qui non voglio criticare nessuno, solo riflettere ad alta voce, questi blog di papà mi pongono una domanda: come reagirei io se a scrivere fosse Luca? Che cosa scriverebbe di me? Soprattutto, come scriverebbe di me?
Beh, prima di tutto, non si sperticherebbe in elogi: a parte che non li merito, ma proprio sarebbe contrario alla sua natura. Per lui non esiste "la mia dolcissima donna": esiste sua moglie e basta, che non è dolce, non è fragile, non è paziente e anzi è una gran rompicoglioni.
E allora mi chiedo: che uomo è uno che ricopre di elogi la sua compagna? Premetto che io mi sentirei a disagio a sapermi descritta così, proprio perché so di non esserlo. Ma io sono un mondo a parte: per me non esistono "dolci attese", "lieti eventi" o "deliziosi pargoli". E probabilmente ho scelto un uomo che condivide le mie posizioni: uno che non si scioglie davanti alle ecografie, è solo un po' assonnato durante i parti, vuole bene ai suoi figli ma senza liquefarsi come a volte faccio io.
Però conosco anche uomini che portano le loro donne in palmo di mano, piangono alle ecografie e impazziscono di gioia al primo figlio come al secondo, senza essere degli idioti e senza usare stereotipi.
E allora perché mi sento disturbata dalle parole dolci di un uomo riguardo il suo mondo? Poi, in realtà, penso che lo stesso tono mi disturba anche in una donna, ma forse una donna ha subito condizionamenti culturali talmente forti che il romanticismo estremo non è neppure tutta colpa sua. Ma in fondo, perché vedere il mondo in rosa dovrebbe essere una colpa? Sono tanto più felice io, che dissacro tutto?
Sono solo domande che mi pongo, non giudizi che emetto.

Quattro amici al bar

Ieri sera ho saltato l'ultima lezione di danza per andare a vedere un mio ex compagno di master che recitava poesie. La sua performance era introdotta da un mio vecchio amico, che non sentivo da un anno (ovvero dalla nascita di Ettore, per cui mi aveva chiamata) e non vedevo da quasi 2 anni, TV a parte. A sorpresa, arrivata là, trovo un altro mio ex compagno di master, reclutato per riprendere l'evento: con lui negli ultimi 6 anni ho scambiato mail con cadenza semestrale, tanto da sapere che ha avuto anche lui una bambina 3 anni fa e anche lui l'ha chiamata Amelia, ma non ci siamo visti per tantissimo tempo, troppo.

Spesso, quando parlo del lavoro che faccio (un lavoro da segretaria, che avrei potuto fare con un diploma di ragioneria), dico di aver buttato alle ortiche (o in un posto meno fine) la mia laurea e il mio master. A volte, negli anni scorsi, qualcuno mi ha chiesto se è utile fare un master e ho risposto di no, a meno che non si vinca la borsa di studio.
Beh, nel mio caso, fare il master è stato importantissimo e utilissimo, per ragioni che perlopiù esulano dall'aspetto puramente formativo.
Certo, ho imparato cose che non immaginavo, ho avuto a disposizione strumenti per l'epoca avanzati, ma più di tutto ho conosciuto delle persone.
Io venivo dall'essere la prima della classe senza sforzo: al liceo facevo il minimo indispensabile (come dice la mia amica C., la ascoltavo mentre studiava) e prendevo buoni voti, mi sono laureata a 23 anni con 110 e lode senza ammazzarmi di lavoro. Insomma, le persone intorno a me mi consideravano una specie di genietto senza pari.
E invece, lì al master, mi trovo 30 persone mie pari: persone intelligenti, preparate, tenaci e curiose, con un curriculum che io me lo sognavo.
Forse il fatto di lavorare insieme tutto il giorno e anche alcuni pezzi di notte, forse il fatto di avere addosso un'energia pazzesca, forse anche il periodo di boom di Internet... insomma, diversi fattori ci hanno portati ad essere un gruppo affiatato. Con tensioni e scazzi, certo: non eravamo una comunità di clarisse. Ma, anche con le persone con cui ho litigato all'epoca, ho mantenuto un rapporto di affetto.

Quando sono giù, pensare a che magnifica promessa eravamo e a come abbiamo spesso dovuto rinunciare ai nostri sogni mi fa male.
Ma basta ricordare la festa di fine anno, terminata sulle rive del Ticino. Mi basta pensare alle serate di chiacchiere e giri con E., che ora sta in Inghilterra, e I., che per fortuna è più vicina. Mi basta pensare alla festa di Carnevale, quella di Lucciole e Lanterne, per sorridere.
E penso, senza retorica, che questi ricordi siano una piccola riserva aurea a cui attingere nei momenti brutti.
La serata di ieri, con le chiacchiere e le poesie e gli abbracci, è un'altra monetina che si va ad aggiungere al gruzzolo.
Speriamo ce ne siano molte altre.

lunedì 6 aprile 2009

Modelle e modelli

Non ho mai voluto fare la modella, come si diceva in una pubblicità di non so più quale prodotto: troppo bassa, troppo formosa, troppo concentrata sul mio valore intellettuale anziché sull'aspetto fisico.
A dire il vero, però, non ho mai voluto nemmeno fare da modello: penso che, se qualcuno deve sbagliare, potrebbe farlo da sé.
Ci saranno però 2 persone che, nel bene e/o nel male, mi vedranno come un modello, come l'archetipo della donna. Oddio, che resposabilità. Io non POSSO essere un archetipo, al massimo un tipo.

Spesso chi ci vede da fuori ci addita come la classica famiglia del Mulino Bianco. Peccato che il nostro mulino sia rosso, tipo Moulin Rouge (anche lì si balla, no?) e non abbia la macina. Peccato che la colazione somigli più a un incontro di lotta nel fango che alle immacolate tovaglie della pubblicità. Peccato che questa mamma spesso torni a casa e trovi il papà impegnato a lavare i piatti col grembiule o a stendere i panni con un Ettore nella fascia. Peccato che, quando si parla di informatica e vino, la mamma sia un'autorità indiscussa. Peccato che... ma perché peccato?
Non ci siamo scambiati i ruoli, li abbiamo solo un po' mischiati come i tarocchi.

domenica 5 aprile 2009

Essere me stessa

Io sono una scrittrice, anche se non faccio la scrittrice per vivere. Non so se scrittori si nasca, ma sicuramente la vocazione arriva molto da piccoli: per me, in seconda elementare.
Anzi, più che una scrittrice, mi potrei definire una narratrice: non mi interessa molto il mezzo con cui mi esprimo, anche se non c'è niente di paragonabile al piacere di vedere le parole formarsi sotto la penna.
Un tempo, prima dell'era di Internet, credevo che scrivere significasse starmene nella mia stanzetta a produrre carta inchiostrata. Mi leggevano in 3 (quando andava bene) e i miei toni erano seri, a volte drammatici. L'ultima volta che ho scritto qualcosa di quel genere ero incinta di Amelia, ed entrambi i racconti che scrissi erano elaborazioni di idee di 2 anni prima. Come se, prima di incominciare la mia nuova vita come madre, volessi concludere ciò che avevo lasciato in sospeso.
Da quasi 5 anni, su questa piazza virtuale, scrivo anche un blog. Post brevi e, spero, buffi, in cui racconto con pochi tratti la mia vita. E, sempre di più, sono assorbita da un'altra attività creativa: la danza orientale, che ho incontrato 7 anni fa e che mi ha impedito di diventare puro cervello in un corpo atrofizzato.
Ma ora è giunto un momento in cui la danza si sta prendendo troppo spazio, come se fosse la cosa principale: col fatto che le lezioni le pago e me le pagano, ci dedico circa 6 ore alla settimana. Non parliamo poi di quando mio marito si mette a suonare in casa o abbiamo qualche spettacolo o simili.
Ecco, non avrei mai pensato di dirlo, ma è arrivato il momento di sfrondare anche la danza. Con la morte nel cuore, certo, ma per evitare di diventare ciò che non sono.
Ma io che cosa sono? Prima di tutto, un essere umano. Quindi limitato: dopo 8 ore di lavoro che odio, passare due sere a settimana a sculettare e altre due sere a tenere i bambini da sola perché il papà va ad arti marziali è veramente troppo. Perdipiù, una volta al mese sono sola di sabato da mezzogiorno a chissà quando, perché Luca prima deve suonare per una mia maestra e poi va a lezione di tamburo a cornice.
Secondo, sono una persona che ama scrivere e che non ne ha più il tempo, perché un conto è rubare il momento di un post o di una mail tra una cosa e l'altra, ma decisamente un altro discorso è pensare di portare avanti un racconto o una sceneggiatura senza avere un momento e un posto preciso in cui farlo.
Terzo, sono una donna che ha un marito che ama da morire e dei bambini meravigliosi, ma al momento li sto deludendo tutti e 3 perché la stanchezza mi rende nervosa e cattiva, e non ho nessuna valvola di sfogo. Non voglio che i miei figli rimpiangano di avermi avuta come madre, e meno che mai voglio che mio marito pensi di aver sbagliato a sposarmi.
Quarto, sono una persona che ha un valore anche sul lavoro: anche se mi trovo in una situazione che non mi valorizza, devo cercare di trovare nuove strade per dare un senso a quello che faccio, perché altri 32 anni di scontento e noia non li posso reggere. Che si tratti di chiedere un part time per inseguire fortuna e gloria o di cercare di far carriera, devo trovare una via d'uscita.
Non voglio tornare a scrivere per pubblicare un romanzo o diventare famosa: che ci crediate o no, io scrivo principalmente per me stessa, scrivo ciò che vorrei trovare in libreria.
Voglio tornare a scrivere per ritrovare la persona che ero, quella che sì non era una santa ma non si incazzava più di una volta a settimana, quella che mio marito ha conosciuto in un brutto centro sociale e che oggi vorrebbe poter cambiare alcune scelte fatte.
Voglio tornare ad essere me stessa.

giovedì 2 aprile 2009

L'ovaio è mio?

Gentile casa farmaceutica Bayer (e non ho detto Pincopallo), produttrice di Milvane,
io sono una consumatrice scontenta e non voglio farlo sapere solo a voi, ma proprio a tutti quelli che hanno la pazienza di stare ad ascoltarmi.
Sono molto scontenta perché dal 1997 uso una pillola anticoncezionale trifasica che tollero benissimo, che non mi causa né ritenzione idrica né gonfiore al seno né aumento di peso né sbalzi di umore né calo della libido né alcuno di tutti gli altri disturbi che fanno parte del vissuto delle consumatrici di pillola. Con timore e dispiacere andrei a cercare un altro farmaco anticoncezionale e mai avrei pensato di guardare con desiderio il cerotto.
Io sto bene con la vostra pillola, ci sono proprio affezionata. E voi cosa fate? Mi cambiate la confezione.
Ora, so che sembra una scemenza da nostalgica, ma il fatto è che la confezione di prima era più funzionale: avevi un blister quadrato, le pillole intorno disposte in cerchio e una rotella adesiva che potevi attaccare in modo che diventasse il calendario delle tue pillole, tipo che sapevi di cominciare il giovedì e fissavi lo spicchio del giovedì sulla pillola dell'inizio. Era un sistema comodo e immediato, che ti permetteva di controllare in un istante se il giorno prima avevi preso la pillola o no.
OK, qualche anno fa avevate "segato" la bustina portablister e già avrei dovuto presagire qualcosa. Ma a me andava bene anche così, un po' più sgarrupata.
Ecco invece che l'anno scorso avete fatto una cosa orribile: avete eliminato la rotella, sostituendola con un blister su 3 righe. A parte che la prima riga e la terza hanno un colore simile e così una volta mi sono ritrovata mestruata due volte in un mese, questa bella innovazione ha l'effetto di non mostrarmi istantaneamente se il giorno prima ho preso la pillola: devo contare.
E sapete che cosa significa contare fino a 15 o 17 per una persona che sta mettendo a letto i bambini o li deve preparare per l'asilo? Significa che non ho 30 secondi da dedicare alla vostra dannata pillola, non ho il calendario in bagno, spesso faccio questo calcolo al buio e cascando di sonno, e poi mica bisogna essere laureati in matematica per prendere una pillola!
Significa che nei 10 anni (con interruzioni) precedenti al 2008 io ho sbagliato a prendere la vostra pillola 5-6 volte. Nell'ultimo anno sbaglio quasi tutti i mesi.
Ora, delle due l'una: o io mi sono bevuta il cervello col secondo figlio o voi avete ignorato tutte le leggi dell'usabilità e dell'ergonomia in nome del risparmio. E dire che sarei disposta a pagare volentieri il doppio, se questo potesse permettervi di tornare sui vostri scellerati passi.
Beh, miei cari, fate i vostri conti: se dovessi rimanere incinta perché il vostro nuovo sistema non mi ha concesso di capire subito di aver saltato e di correre ai ripari, vi costerà molto di più della vecchia confezione. Forse non vincerò una causa contro di voi, ma sicuramente vi farò la peggior pubblicità del mondo.
Azienda avvisata...

Peraltro: nel vostro sito italiano non c'è neanche un indirizzo a cui inviare questa protesta. Bella customer care, complimenti!

mercoledì 1 aprile 2009

Al femminile

In queste ultime settimane, ho fatto spese folli in libreria. Tra i miei ultimi acquisti, c'è una versione illustrata della Turandot di Puccini, con brani scelti dall'opera. Amelia ne ha ascoltato un pezzo con interesse, ma poi si è stufata: la vicenda è un po' troppo complessa per lei, si è arresa appena dopo gli indovinelli.
Io invece, che ho sempre amato più di tutte la figura di Liù e ho sempre considerato Calaf uno stronzo, ci ho rimuginato sopra. Mi sono chiesta: ma le cose sarebbero andate così se i generi fossero stati invertiti?
Immaginiamoci.
A Pechino c'è questo principe Turandot, bellissimo ma irraggiungibile, che non si vuole sposare. A tutte le principesse che si propongono come spose, lui propone tre enigmi. Chi fallisce, dica addio alla sua testa.
Arriva la squattrinata principessa Calaf, che per caso nella folla incontra la propria vecchia madre detronizzata, accompagnata da un fedele servitore, Liu. Calaf scopre la storia dei tre enigmi, vede il principe Turandot e pensa che valga la pena di tentare la sorte.
Indovina la soluzione di tutti e 3 gli enigmi, rivelandosi bella e intelligente, e conquista così il diritto di sposare il principe, che nonostante tutto si oppone alle nozze.
Allora Calaf lancia una sfida: se Turandot riuscirà a scoprire il suo nome prima dell'alba, rinuncerà a sposarlo.
Turandot scopre il legame tra Calaf e gli altri due stranieri. Fa torturare Liu per scoprire il nome della principessa, ma Liu, innamorato, non parla.
Ecco, a questo punto, nella versione di Puccini, Liu si uccide per paura di non resistere alla tortura (cantando uno dei pezzi per soprano più belli del mondo) e Calaf convola a giuste nozze con Turandot.
Io immagino che, se Calaf fosse stato una donna, le cose sarebbero andate diversamente: si sarebbe commossa per l'amore di Liu e si sarebbe fatta avanti dicendo "Lasciamo perdere, va', facciamo che io rinuncio a sposare Turandot e Liu viene lasciato libero".
Se ne sarebbe andata via con Liu e la vecchia madre e sarebbero tutti tornati nelle steppe dell'Asia Centrale ad allevare yak o quello che si alleva da quelle parti lì.
Perché a volte è meglio essere innamorati di una bella persona in una yurta piuttosto che stare con una stronza in un palazzo di giada.