giovedì 29 ottobre 2009

Buone per forza

Confesso: ho letto il terzo libro del ciclo dell'Eredità, Brisingr. Questo attesta inconfutabilmente che anch'io leggo robaccia. Se fossi Cajelli, potrei cavarmela dicendo che fa parte del mio mestiere. Dal momento che non lo sono, dico solo che è più salutare ed economico che drogarsi o darsi allo shopping compulsivo.
Chiusa la premessa.

Credo di non rivelare nulla di arcano nelle prossime righe, giacché in questo libro ogni cosiddetto colpo di scena viene telefonato fin dal primo libro della serie. Il che ci fa anche pensare che il protagonista, Eragon, sia magari dotatissimo per il combattimento con i draghi, ma un tantinello mancante di intuito e raziocinio.
Già nel primo o secondo libro, Eragon aveva scoperto di essere figlio di Selena, che lui si immaginava come una povera sprovveduta innamorata dell'uomo sbagliato. Nel secondo libro, crede di essere figlio di Morzan, il supercattivo numero 2 della serie, defunto da un pezzo. Nel terzo libro, stupore degli stupori, scopre di essere in realtà figlio di Brom, il suo primo maestro.
Se non avete visto neppure il film e vi siete già persi, niente paura: sto per arrivare al punto.
Il punto è che a questo punto Eragon, comprensibilmente (anzi, non comprendiamo perché non l'abbia fatto prima), comincia a farsi alcune domande sulla propria madre: ma come? perché stava con un cattivissimo? era una vittima o una complice? e, nel tradire il cattivissimo, è stata zoccola o redenta? Insomma, un sacco di domande che ciascuno si sarebbe già fatto da un pezzo, persino sulla madre di un altro.
Ne viene fuori che la cara mamma (spero) defunta non era la dolce cerbiatta spaurita che Eragon pensava, ma una guerriera e una maga coi fiocchi, al servizio del suo beneamato ma cattivissimo marito, con gran soddisfazione. Ovviamente, siccome nessun eroe può avere siffatta madre, ci viene raccontata la pietosa storia di come la prima maternità (Eragon ha un fratellastro) e il successivo amore per il buono l'abbiano convertita al bene.
E qui Eragon fa la domanda più idiota del mondo: mia madre era buona? Anche se il suo maestro
cerca goffamente di dirgli che non conta, ecc., alla fine la risposta è sì, tua madre era fondamentalmente buona. Ha fatto quel che ha fatto per amore del cattivissimo e/o magari perché costretta con la magia, e comunque alla fine ha aiutato i buoni.

A me, madre e narratrice, la prima cosa che è venuta in mente è: che ti frega se tua madre è buona? Siamo così condizionati dalle nostre origini, anche nel caso in cui le abbiamo ignorate fino all'età adulta? Una madre non può essere una che fa cose terribili fuori casa ma essere ugualmente una buona madre?
Immagino una sovrana del passato, tipo Maria Teresa d'Austria (ve l'ho mai detto che l'ammiro molto?). Un impero vastissimo, con moti di ribellione da sedare, e una nidiata di figli (e soprattutto figlie) da amare ed educare. Capace di aver ordinato di sterminare un villaggio di ribelli, e poi assistere a una lezione di pianoforte di Maria Carolina. O di stipulare un orrendo compromesso con la parte politica avversa, e poi cullarsi l'ultimo nato.
Nel nostro piccolo, noi donne facciamo tutti i giorni cose di questo genere. Cose che sappiamo essere eticamente scorrette e ripugnanti ma necessarie. O anche semplicemente sgradevoli, ingiuste ma sempre necessarie. Penso a chi deve comunicare a un dipendente che deve licenziarlo. O a chi non è nella condizione di rifiutare di gestire certe pastette finanziarie dei suoi capi.
Con la coscienza pesante, torniamo a casa e cerchiamo di toglierci di dosso lo schifo, di stare a contatto con qualcosa di puro e "giusto" come i nostri figli.
Ma, se fossimo assassine, se fossimo serve di un potere tirannico, potremmo essere buone madri? Io credo che l'animo umano sia la cosa più imperscrutabile del mondo, e che la risposta sia sì, si può essere buone madri in ogni condizione, se lo si vuole.
Perché forse ciò che di buono non mettiamo nel resto della nostra vita si può mettere nel rapporto con i figli. Si possono fare cose orribili e amare i propri figli, purché le due cose siano del tutto separate.
Del resto, nessuno si è mai chiesto se un soldato dei corpi d'assalto possa essere un buon padre. In guerra si uccide e si distrugge, si vedono e si fanno cose orribili e sbagliate, ma si tratta di fatti confinati lì, fuori dalla famiglia. E non credo nemmeno che, se tornano a casa e si comportano da buoni padri, siano ipocriti: penso solo che riversino nella famiglia la propria parte migliore.

Questo "problema" mi sta a cuore non tanto per la mia vita personale (l'unica cosa orrenda che vorrei fare in questo momento è sterminare i gatti pulciosi del mio vicino, il che sarebbe oltretutto forse un atto di pietà, e comunque non lo farò), quando per la coerenza del personaggio Viola.
Nella serie, Viola si ritroverà alcune volte a fare cose non orribili ma brutte, ad essere complice di un criminale e a tradire la fiducia di una persona. Lo farà non tanto per proprio tornaconto personale (tipo arricchirsi a dismisura), ma per salvare Stefan e/o la propria agenzia. Non so ancora se ne metterà al corrente Luca, ma propendo per il sì.
Mi chiedo come questo interferirà nel suo rapporto di coppia e nella sua vita familiare. Se da un lato penso che Luca apprezzerà la sua onestà, dall'altro temo che non capisca. Se si trattasse del mio Luca, penso che capirebbe, ma abbiamo già parlato del fatto che il mio Luca non è un personaggio verosimile. Se d'altro canto Viola decidesse di non parlarne a Luca, succederebbe una cosa ancora più brutta: si romperebbe il patto di fiducia tra loro, che si son sempre detti tutto. Ci sarebbe una terza via: come nella graphic novel, Viola potrebbe semplicemente dire a Luca di essere costretta a fare certe cose, ma non dirgli che cosa per non metterlo in pericolo. Ma la sostanza non cambia, si ritorna al primo punto.
In sostanza, forse, il mio dilemma non è molto diverso da quello di Eragon. La differenza è che io credo che lo risolverò molto diversamente.

mercoledì 28 ottobre 2009

La solitudine dei genitori

Ennò, questo non vuole essere l'ennesimo post lamentoso sulla triste condizione dei genitori dimenticati dalla società e dallo Stato (anzi, non fatemici pensare, se no mi si guasta l'umore).
Qui si vuole solo prendere spunto da lei per parlare di una cosa che succede spesso ai genitori di bambini piccoli, secondo me.
Quando Amelia era piccolissima, io e Luca frequentavamo quasi in contemporanea due corsi rispettivamente di danza e tai-chi presso una scuola di Pavia. Erano di venerdì sera, e questo ci forniva la "scusa" per lasciare Amelia presso mia madre per tutta la notte e andarla a recuperare il mattino dopo. Tuttora, se non ci sono altri programmi, Amelia passa una notte del weekend dai miei. Ed Ettore? Ettore ogni tanto l'ha spuntata, ma alla fine quella che si diverte di più dai nonni è Amelia e quindi è giusto così. Quando Ettore sarà più grande, ci andranno entrambi, dai nonni.
Prima di Ettore, quindi, ci capitava spesso di avere sere libere, a volte anche interi weekend. Facevamo cose, vedevamo gente. Ma, sempre più spesso, ci dispiaceva essere "da soli". Man mano che Amelia cresceva e capiva sempre di più, eravamo più contenti di portarla con noi a vedere cose belle (uno spettacolo, l'Acquario di Genova, un mercatino) piuttosto che di andarci da soli. Spesso, negli ultimi tempi, l'abbiamo lasciata comunque dai nonni per motivi più di salute o perché lei preferiva così, piuttosto che per nostra scelta.
Mi direte: ma hai Ettore, un figlio è quasi sempre con te. Ma il fatto di essere con lui acuisce il desiderio che ci sia anche lei.
Per esempio: due venerdì fa, spettacolo della mia maestra con la nuova compagnia, De Nova Luce. Amelia ha preferito stare dai nonni, Ettore è venuto con noi. Certo, Ettore era affascinato e rapito, ma vuoi mettere quanto si sarebbe divertito di più se ci fosse stata Amelia? Quanto avrebbero giocato a ballare, con nuovi spunti e nuove musiche, imitando insieme quello che vedevano sul palco? Quanto avremmo parlato poi della "sua amica Francesca" (una delle ragazze del gruppo, che alla scorsa festa di Natale l'ha coccolata e fatta ridere), di quanto erano belle e brave, e del fatto che da grande Amelia ballerà come loro?
Ecco perché, quando qualche neogenitore mi annuncia tutto fiero che sta per partire per un weekend "da soli", rido un po' sotto i baffi: so che, 9 volte su 10, ne tornerà con l'impressione di aver fatto una cosa un po' ridicola e assurda e con una certa nostalgia dei bimbi lasciati a casa. Un po' come quando, a 12 anni, cercavo di giocare ancora con le Barbie ma senza la soddisfazione dell'infanzia.
Non dico che dai bambini non ci si possa staccare mai, per carità: siamo mica simbionti. Ma, la maggior parte delle volte, essere senza di loro mi dà una sensazione strana e mi riempie di nostalgia. Mi muovo veloce e finalizzata, senza nessuno che mi faccia domande o si incanti a guardare un piccione. Divento efficiente, razionale, leggera. Ma inevitabilmente sola.

domenica 25 ottobre 2009

Nel bene e nel male

In questi giorni, mi sono trovata a riflettere sul modo più giusto di confortare una mia amica. Questa persona, che mi è molto cara pur essendo fisicamente lontana da me, sta cercando di avere un bambino da circa 4 anni, ma finora ha rimediato solo due "false partenze" (chiamiamole così per usare un eufemismo). Ora ha fatto tutti i controlli del caso, sarebbe pronta per riprovarci di nuovo ma è comprensibilmente spaventata.
Mi sono chiesta che cosa avrei fatto io al suo posto, ma la mia fertilità è troppo pronta (TROPPO, accidenti!) per permettermi di mettermi nei suoi panni: sebbene le gravidanze (soprattutto la seconda) siano state un periodo che non amo per niente, non ho mai avuto minacce d'aborto, sono sempre stata accettabilmente sana e non mi sono mai posta nessun dilemma riguardo al proseguimento del "processo".
Ricordo però che, prima di entrambi i miei figli, anch'io ero spaventata, per motivi diversi. Amelia mi spaventava perché rappresentava un cambiamento enorme nella mia vita e perdipiù temevo che sarebbe stato un inferno, dal momento che odiavo i bambini (e in realtà li odio ancora). Ettore rischiava di rompere l'equilibrio della mia famiglia, di suscitare la gelosia di Amelia, di caricarmi di troppa fatica.
Oggi so che, nel mio specifico caso, i miei timori erano infondati. So che valutavo solo sulla base della mia paura, e avevo paura persino di pensare che sarei stata felice. Vedevo i possibili problemi, non i possibili lati positivi.
Infatti, quando la mia ostetrica (peraltro meravigliosa ed energica) cercava di incoraggiarmi, dicendo che alla fine di quel dolore avrei avuto il mio bambino, la sua esortazione dava voce alle mie paure, invece di spronarmi.
In questi giorni credo di aver fatto lo stesso errore della mia ostetrica, con la mia amica: ho sottovalutato il carico di paura che il concepimento porta con sé. Ho cercato di razionalizzarlo e minimizzarlo, quando qualunque genitore o futuro tale sa benissimo che la ragione non può che avvalorare ogni nostra paura: solo la fede (non parlo di quella religiosa, ma di qualsiasi tipo di fede) e l'incoscienza possono aiutarci. La ragione ci dice che tot coppie si separano perché non riescono a trovare un equilibrio dopo la nascita del proprio bambino, tot madri piombano nella depressione post partum, tot bambini presentano problemi di salute non diagnosticabili con gli esami prenatali, per non parlare dei problemi economici e sul lavoro. L'incoscienza ci fa sperare di vivere in una replica del Mulino Bianco, con bimbi belli e sani e un marito innamorato. Il problema è che una come me, che in Star Trek non sfigurerebbe a fare la vulcaniana, non può affidarsi alla fede.
Quello che posso dire è che nessuna delle attività della mia vita, nemmeno la scrittura, mi ha mai dato la felicità che mi danno i miei figli. E niente al mondo sarebbe paragonabile al dolore di perderne uno, anche se fosse solo un embrione.
Perché l'aborto sarà un sacrosanto diritto delle donne e io morirò piuttosto che negarlo, ma, ora che ho due figli, non posso non pensare che quell'ammasso di cellule che se ne va avrebbe potuto avere i capelli biondi degli altri miei figli o sarebbe potuto essere goloso dei lamponi del papà o avrebbe potuto tenermi sveglia per una notte tossendo. Non riesco a non pensarlo come una persona, fin da subito, sia pure in potenza, e questo mi terrorizza abbastanza, perché so che, se la pillola fallisse, il terzo figlio non riuscirei a rifiutarlo.
Qualcuno dirà: bella scoperta. Beh, lo so di non dire niente di nuovo (e peraltro so di sembrare d'accordo con Ratzinger), ma forse dovevo prima guarire dalla paura folle di avere figli per realizzarlo completamente. Scusate il ritardo.

giovedì 22 ottobre 2009

Un problema con l'autorità

Allora, anche se ancora non stringo in mano la lettera di trasferimento, è praticamente confermato il mio trasferimento alla Presidenza di Medicina. Dal 2 novembre. Evidentemente all'ufficio personale non sono superstiziosi.
Qui a Meccanica Strutturale lascio una collega che mi ha aiutata molto (ma che, poveretta, al mio rientro l'anno scorso era a casa per una lunga malattia, per fortuna finita bene), due colleghi che mi sono indifferenti e un capo che disprezzo profondamente, al punto di chiedermi in questi mesi se ero io ad avere un problema con l'autorità o viceversa.
Facciamo una premessa: non è la prima volta che mi trovo male con un capo (più per motivi di comportamento che di competenze), ma mi è anche capitato di trovare capi meravigliosi, che avrei seguito anche nel fuoco. Quindi non penso che sia un problema con l'autorità a priori.
Seconda premessa: per un anno / anno e mezzo circa, mi sono trovata a coordinare altre 2 persone + n stagisti. Questo incarico, seppur minuscolo, mi ha fatto porre un sacco di domande su che cosa significa essere un capo, che cosa deve fare un buon capo, ecc.
Sono arrivata alla conclusione che il comportamento di un capo debba essere molto simile a quello di un genitore, senza però diventare paternalistico.
Per esempio, un genitore non può pretendere dai figli un certo comportamento, se non dà il buon esempio per primo. Nello stesso modo, un capo non può pretendere di applicare ai propri sottoposti regole che lui per primo non rispetta, se si trova lui stesso nelle condizioni di doverle rispettare (per esempio, nell'ambito delle timbrature per la presenza).
Oppure: un genitore non può sfogare sui figli la rabbia accumulata sul lavoro o nella coppia, inventandosi lì per lì regole estemporanee. Allo stesso modo, se tu capo sei stressato perché altri ti danno il tormento, non puoi sfogarti a morte con i tuoi sottoposti per una cazzata.
Anche perché i figli, nella maggioranza dei casi, vogliono bene ai loro genitori e tendono a giustificarli, avranno anche modo di capirli meglio col tempo (se c'è qualcosa da capire), piuttosto si inventeranno storie per non ammettere di essere stati messi al mondo da un bastardo.
I sottoposti, invece, ti aspetteranno nell'ombra per pugnalarti alle spalle, spieranno ogni tua mossa per coglierti in fallo, ben che vada se ne andranno dicendo ogni male di te. Se sei solo un bastardo, questo può anche lasciarti indifferente, soprattutto se sei ben protetto. Se però sei un bastardo incompetente, arrivato dove sei solo grazie agli appoggi di qualche amico potente, prima o poi l'amico potente ti troverà imbarazzante e ti scaricherà in favore di uno più bravo e rappresentativo.
Io com'ero a fare il capo? Ovviamente non so che cosa pensassero di me le persone con cui lavoravo. Ma io cercavo in ogni modo di essere all'altezza del compito. Anche perché, nella mia testa, era chiarissimo il concetto "a un qualsiasi potere è collegata una responsabilità".
Per esempio, se il mio capo aveva da dire qualcosa su un lavoro fatto dal mio team, mi prendevo io il cazziatone senza dire nulla e poi privatamente rigiravo le eventuali critiche alla persona che se le era meritate, cercando più di risolvere il problema che di individuare il capro espiatorio.
Mi sentivo in colpa se uscivo dall'ufficio prima di un mio collaboratore, mi scazzavo con la direzione se scoprivo che il pagamento di uno di loro era in ritardo, cercavo il più possibile di creare un clima di condivisione.
Non so se ho lasciato un buon ricordo di me nelle persone con cui ho lavorato. Ma la mia coscienza mi assicura che ho fatto di tutto per lasciarlo. A differenza di qualcuno, troppi, sulle cui tombe molti andranno a sputare con grande ragione e soddisfazione.

martedì 20 ottobre 2009

Il magone del genitore lavoratore

Dicesi "magone" in gergo pavese il desiderio di piangere. "Fare il barcé" è invece quella smorfia della bocca con le labbra un po' in fuori e gli angoli in giù che sfocia poi in pianto.

Ieri ho avuto una giornata lunga e diversa.
Prima di tutto, non sono andata a lavorare.
Secondo, ho consegnato la C3 all'officina e ne sono tuttora priva (vado a prenderla alle 17), il che mi ha costretta a muovermi come quando avevo 16 anni: un passaggio da mia madre, i mezzi pubblici e infine il recupero da parte di mio marito.
Terzo, ho passato un'oretta a chiacchierare con mio nonno, che mi è parso stranamente meno infantile del solito (anzi, decisamente ho imparato cose interessanti).
Quarto, ho pranzato sola in un bar del centro, come mi capitava a volte da studentessa, leggendomi lo Speciale Dampyr (che, ahimè, non esisteva quando ero studentessa) e sentendomi non sola e sfigata ma rilassata e tranquilla.
Quinto, ho partecipato a un convegno insieme a Mammaincorriera e ho trovato un sacco di spunti interessanti per riflettere sul senso del narrare non solo nel contesto corporate ma anche in quello pedagogico e personale.
Sesto, ho partecipato a un ricco buffet gratis.
Settimo, un uomo che non è mio marito ha provato a sedurmi (il fatto che fosse evidentemente malato di mente non scalfisce per niente il mio picco di autostima).
Ottavo, dopo aver accompagnato Mammaincorriera e un suo conoscente in stazione, ho aspettato che Luca venisse a recuperarmi. Nella Palio c'erano Ettore già addormentato e Amelia in procinto di. Con entrambi ho potuto avere uno scambio decente (di parole e/o versi) solo stamattina. Infatti stamattina mi sono fermata un po' di più a coccolarli e sono arrivata in ufficio un filino più tardi.
È stata solo una giornata, e non è né la prima né l'ultima volta che passerò 24 ore senza vederli svegli. Quello che non riuscirei ad accettare sarebbe che questa diventasse la norma.
Non riesco a concepire che una persona, tutti i santi giorni, riesca a vedere i suoi figli svegli per non più di un'ora e solo in situazioni del tipo "Svegliati, vestiti, mangia la colazione" e "Finisci la cena, spogliati e vai a letto". Perché per me sono le parti più avvilenti dell'essere genitore, quelle in cui non sei molto di più che un cane da guardia.
E del resto non trovo neanche giusto che il genitore più assente (sperando che sia uno solo) si goda solo i momenti belli, lasciando all'altro quelli più critici.
Il punto è che la "colpa" di questo non sta nel genitore che vuole lavorare, ama il suo lavoro e si fa un culo così dalla mattina alla sera (sul lavoro e in tangenziale). Quello che mi fa orrore è un sistema che ci vuole tutti così: rassegnati a fare due ore al giorno di viaggio per andare al lavoro, felici di fare un'ora o 2 di straordinario perché significa che la nostra azienda va bene e sopravvivrà alla crisi, contenti di avere sempre più responsabilità e compiti perché è così che faremo carriera e guadagneremo di più (o forse "semplicemente" potremo gestirci più in autonomia e svolgere compiti più gradevoli).
Chi più chi meno, siamo tutti in questo sistema. Al punto che uno che comincia alle 6 ed esce alle 16 (più spesso 16.30) si sente quasi di doversi giustificare perché ha mezzo pomeriggio libero. E, da statale, ti sembra persino poco che il nido di Ettore (dove molli anche Amelia, altrimenti arriveresti in ufficio troppo tardi) apra alle 7.30. Ma probabilmente alle persone che lavorano in certe zone di Milano sembra troppo poco che lo stesso nido chiuda alle 19.30, perché ne avrebbero bisogno fino alle 20.
In tutto questo, trovo ottusa e folle una società che ci obbliga a far crescere i nostri figli da altri pagati per farlo, senza alcun legame affettivo con i nostri bambini e con una cultura largamente più ristretta della nostra.
Lo so che al momento in Italia non si può fare molto diversamente. Probabilmente anche nel '600 non si poteva fare molto di più che lasciar morire gli appestati che non ce la facevano e gioire per chi si salvava. Ma, accidenti, non era certo umano.

mercoledì 14 ottobre 2009

Danza e seduzione

La prima cosa che mi dicono quelli che scoprono che faccio danza del ventre è: ah, è una danza sensuale. Alcuni lo dicono con aria allusiva (del tipo "chissà che maiala sei, magari sei pure capace di darmela"). Altri con aria stupita (del tipo "non ti facevo il tipo che gioca all'odalisca, se no magari te la chiedevo"). Altri (altre, di solito) si entusiasmano (del tipo "ecco perché tu e tuo marito funzionate così bene, voglio farlo anch'io"). E via delirando.
Il fatto è che io non la vivo come una danza sensuale, non nel senso "adesso che so contorcermi come una serpe vengo lì e ti faccio perdere la testa come Salomé col Battista". La vivo come una danza sensuale nel senso che mi fa riscoprire i miei sensi. La amo perché mi ha fatto scoprire che non sono solo cervello e mi ha riconciliata con il mio corpo. E ho scoperto che molte la vivono come me, e questo ci fa sentire sorelle, amiche, complici.
Insomma, per me la danza del ventre (o, meglio, orientale) è una disciplina più simile alla capoeira o che non allo spogliarello. Fatta più di divertimento e virtuosismo che di seduzione.
Quando vado a vedere uno spettacolo, non ci vado con lo spirito "andiamo a vedere la lap dance" ma come un appassionato di pattinaggio che va a vedere le gare e valuta come vengono fatti i toe loop e le trottole. Non per spirito ipercritico (tipo "io lo faccio meglio": ma quando mai?) ma per vero godimento nel vedere un'esecuzione tecnica ben fatta.
La verità è che non tengo mai conto della reazione ormonale di chi guarda, perché questa danza fa talmente parte del mio quotidiano che trovo perfettamente normale che la pratichi anche mia figlia di 3 anni, magari insieme a me mentre aspettiamo che sia pronta la pasta.
Questo è vero anche per tanti altri aspetti della mia vita. Per esempio, avendo una prima/seconda, non mi faccio nessun problema a mettere scollature anche ampie (la verità è che il girocollo mi soffoca). Non essendo più né giovane né in forma, penso che mostrarmi nuda (o in costume) in pubblico possa causare più imbarazzo che arrapamento, nel caso a qualcuno importasse qualcosa (in realtà penso che per la maggior parte delle volte causi sana indifferenza).
È probabilmente anche per questo che mi stupisco quando si sollevano polveroni come questo. Ché ora io dico: se passi spesso dalla Vì, sai che è ironica e provocatrice, sai che scherza spesso sulla storia delle sue tette, sai che ha certe idee politiche e certe convinzioni. Io, per esempio, ho pensato come prima cosa: saran contenti tutti quelli che le scrivono per avere una foto delle sue tette. Poi torno dopo un paio di giorni e trovo 60 commenti, la maggior parte gradevoli e lunsinghieri (però signori uomini, lasciatemelo dire: io davanti alla fotografia di una sezione maschile, seppure molto graziosa, non mi arrapo, quindi non vi capirò mai), altri veramente trolleschi. Più delle cattiverie gratuite sulla persona (c'è sempre qualcuno pronto ad attaccarti, appena scopri il fianco), mi dà fastidio il fatto che una foto qualsiasi di un paio di tette VESTITE possa suscitare tante polemiche.
E non capisco se sono io ad essere un'ingenua senza speranza o se ci stiamo talebanizzando e pensiamo che ogni tipo di esibizione sia un'esibizione sessuale. Certo, in questo l'italiano medio è aiutato dalle veline e da certa classe politica (non buttiamo la croce addosso solo a Berlusconi, sappiamo tutti che è un tipo generoso e che avrà condiviso i suoi piaceri con tanti amici parlamentari e ministri).
Forse è proprio questo: io la TV non la sto guardando più, nemmeno i TG. E questo, se da un lato mi esclude un po' dal sapere tutto e subito (ma, viste le notizie dei TG, lasciatemi dubitare che sia poi così importante), dall'altro mi restituisce un senso più concreto del vivere. Mi dà il senso più antico e vero di una danza delle donne per le donne, invece di ammantarla di una seduzione che non intendeva avere in origine. Mi porta a pensare che una che balla in costume da bagno mi dia più la sensazione di freddo che il desiderio di emularla.
Ma la mia mancanza di seduttività non deriva da questo, ne sono sicura. Deriva da ere più antiche, in cui la sola cosa da valorizzare era il mio cervello e il resto solo vanità. Chissà come sarebbe diversa la mia percezione di me stessa, se fossi cresciuta nell'era Berlusconi come i miei figli.

domenica 11 ottobre 2009

Un weekend particolare

Questo che è appena passato è stato un weekend che non partiva sotto i migliori auspici: previsioni meteo disastrose e Luca infortunato (ma meno impedito del previsto, a dire il vero). Aggiungeteci poi che, giunti in vista di Bobbio, Amelia si è svegliata e ha vomitato tutta la colazione con preavviso di un nanosecondo.
Siamo arrivati a Bobbio trafelati, con l'urgenza di un cambio in più per lei e di un rivestimento di fortuna per il seggiolino bagnato (abbiamo avuto la fortuna di trovare una canna dell'acqua con cui lavarlo, dopo il vomito). Ci siamo precipitati al mercato in chiusura e siamo riusciti a fare anche dei discreti affari.
Da lì, è stato un relax progressivo. Con momenti di crisi, per carità (Amelia era nella fase "non voglio"), ma tutto in crescendo.
Siamo andati al Ristorante dei cacciatori, dove abbiamo mangiato funghi buoni e cucinati bene. Poi un giro sul Ponte Gobbo e via verso l'agriturismo che avevamo già provato quest'estate. Amelia ha riconosciuto il posto appena abbiamo imboccato il vialetto d'entrata, era tutta entusiasta di ritrovare i cavalli, la ghiandaia Lawrence e l'ineffabile Emma. Io in quel momento mi sono ricordata di non aver preso la digitale e mi sono data mille volte dell'idiota. Prima di tutto perché a Lawrence è cresciuta la coda e ora ha una sua dignità di ghiandaia adulta, non sembra più un pulcino sfigato. E poi perché il Trebbia in questa stagione è spettacolare.
Sabato abbiamo qualche giro "di corvée", perché essenzialmente eravamo lì per prendere due taniche di acqua termale (per lavaggi nasali e inalazioni). Ma abbiamo trovato anche il tempo per scoprire un prato bellissimo con vista su Bobbio (di cui avremmo una foto, se solo...).
Ci siamo scaldati e abbiamo letto e giocato davanti al fuoco del camino, poi un'ottima cena (che lumache...) e poi siamo andati a dormire.
Lo spettacolo è stato stamattina: giornata tersa ma un po' fredda, ci siamo permessi di giocare e rilassarci al sole in agriturismo fino alle 11. Poi il commiato da Emma e Marcello e un giro veloce a Bobbio per commissioni e viveri.
Avevamo in mente di fare un giro nel bosco di San Salvatore e poi vedere un po' come buttava. Il giro nel bosco l'abbiamo fatto in 20 minuti, ma poi ci siamo lasciati tentare da un bellissimo prato tipo quello dei film: erba tenera, pochissimi insetti molesti, il sole ad asciugare la rugiada, tutto circondato da alberi e cespugli di rosa canina. Abbiamo mangiato, letto, giocato e poi abbiamo esplorato.
Siamo passati per una bella vigna - frutteto e siamo arrivati al fiume per una via molto più piacevole e breve rispetto a quella che conoscevamo. Lì, mentre i bambini giocavano con la sabbia (probabilmente per l'ultima volta prima della prossima primavera/estate), abbiamo esplorato a turno i dintorni e abbiamo scoperto un ruscello a cascatelle che l'anno prossimo sarà ideale per i giochi dei bambini (e per belle foto, spero).
Pian piano, dopo la merenda, siamo tornati su nel paesino di San Salvatore. Ci siamo fermati un attimo a guardare i gatti di questo posto (li vediamo da anni e anche stavolta non sono riuscita a fotografarli: sono gatti più o meno tigrati nero e argento, con varie lunghezze di pelo) e a chiacchierare con un'anziana signora con cui scambiamo due parole ogni volta che passiamo di lì.
Infine ci siamo messi in macchina, con la consapevolezza di aver passato una giornata speciale (Amelia, che non sarebbe voluta andare nel prato, continuava a ripetere di essere contenta e di essersi proprio divertita).
So bene che, se non siamo in pace con noi stessi, ogni posto può essere un inferno e viceversa. Ma ci sono luoghi (con le loro persone e la loro luce e la loro natura) che hanno il potere di rendermi felice solo per il fatto che ci sono andata. Un po' come quando tutto ti va storto, incontri quel certo vecchio amico e da lì ti ritorna il buonumore.
Certo è che oggi farò molta fatica a scegliere qual è stato il momento più bello della mia giornata.

giovedì 8 ottobre 2009

Credere obbedire combattere

Ieri, poco dopo aver pubblicato la notizia che i colloqui per la nuova mansione stavano andando bene, ho ricevuto una telefonata di mio suocero che mi faceva i complimenti. A parte la dovuta scaramanzia, perché ancora nulla è sicuro, ho provato un po' di imbarazzo e fastidio, come la maggior parte delle volte che mi fanno complimenti. Non fraintendetemi: mi ha fatto piacere, apprezzo tantissimo e ringrazio. Ma sono stata allevata con l'intima convinzione che i commenti poco più che positivi siano smancerie.
Questa convinzione non l'ho fatta mia né nell'educazione né nei rapporti con gli altri. Se mio figlio fa la pipì nel vasino, faccio una festa da stadio. Se mia figlia balla davanti a me (e, Isa, devi vedere quanto è diventata brava!), mi sciolgo. Dico spesso a mio marito quanto lo considero una bella persona. Se un'amica ha una bella borsa o ha fatto qualcosa che trovo interessante, glielo dico subito.
E loro sanno che lo dico perché lo penso, altrimenti starei zitta.
Su di me, questa cosa non funziona. Se qualcuno mi fa i complimenti per qualcosa che indosso, ancora ancora. Ma, per il resto, mi chiudo a riccio. Soprattutto se (ma non è il caso ovviamente di mio suocero) penso che siano complimenti interessati (tipo una mia collega, che blandisce gli altri colleghi per far fare a loro - con la scusa che sono "così bravi" - i lavori che lei non ha voglia di fare).
Questo non riguarda le cose che io faccio. Per esempio, se qualcuno mi dice che gli è piaciuta Viola, sono solo contenta e, anzi, cerco di approfondire: che cosa ti è piaciuto di più? che cosa di meno? ma quel momento lì funziona o così così?
Oppure, se cucino qualcosa che mi è venuto bene, non trovo sconveniente dirmelo da sola, soprattutto se sono in famiglia (e poi postare la ricetta sul blog).
L'imbarazzo da complimenti riguarda solo la mia persona. E credo anche di saperne la ragione. Nella ruvida cultura della mia famiglia, lombarda fino al midollo, non c'è spazio per i complimenti. Forse me ne avranno fatti quando ero piccolissima, me lo auguro. Ma, da quando mi ricordo, ogni volta che avevo fatto bene qualcosa "avevo solo fatto il mio dovere".
Ora, non crediate che la mia sia una famiglia di persone insensibili e fasciste. I miei non erano diversi dalla maggior parte dei genitori delle mie amiche. Ovviamente, poi, i livelli di rigidità erano variabili: io, che ero stata da subito molto brava, dovevo rispettare standard molto alti (mi facevano il culo per un 6 e 1/2, per dire), mentre ad altri bastava la sufficienza. Non esisteva che gli insegnanti avessero torto (anche se poi, molti anni più tardi, mia madre mi ha confessato di non essere stata sempre e comunque d'accordo con il loro operato).
La maggior parte delle valutazioni personali passava dal successo scolastico, oltre che da una buona condotta. Io, per esempio, che ho sempre raggiunto buoni risultati senza fatica, sono sempre stata fustigata per la mia pigrizia, per il mio egoismo e per il mio scarso rispetto per l'autorità. Non perché mia madre fosse una sadica, ma perché pensava che, concentrandosi sulla correzione dei miei aspetti negativi, avrebbe fatto meglio che valorizzando i miei lati positivi.
Il risultato qual è? Che la mia autostima si basa di più su quello che faccio piuttosto che su quello che sono. Ergo, quando non produco nulla che mi piaccia, mi sento una cacchetta di mosca. Ed ecco perché l'idea di poter avere di nuovo in mano un sito o una guida dello studente, qualcosa di tangibile fatto da me, mi fa gongolare, dopo anni di improduttività (almeno dal mio punto di vista).
Viola ovviamente non conta nel novero delle produzioni, perché per ora nessuno mi sta pagando per scrivere e quindi, nel mio personale bilancio, è sullo stesso piano della cucina e della danza.
L'altro risultato è che io non so che cosa pensino di me i miei genitori. Mio padre ha potuto constatare che sono brava nel mio lavoro, ma non credo che la cosa conti molto per lui, ai fini di una mia valutazione globale. Mia madre è come se accettasse ogni mia scelta con la filosofia "se sei contenta tu, è la scelta giusta", ma non credo che sia mai stata entusiasta delle scelte che ho fatto dal master in poi: le avrebbe preferito che continuassi con un dottorato e facessi la posta a un concorso da ricercatrice, e poi non avrebbe voluto che andassi a lavorare con mio padre (in questo aveva ragione), e poi forse avrebbe preferito che aspettassi un po' di più a fare figli e cercassi di rilanciare la mia carriera prima di fermarmi per una maternità. So che stima Luca, che è contenta di lui e che non potrebbe essere più felice di avere i nipoti che ha. Ma credo anche che mi veda come una promessa mancata. Del resto, sotto certi aspetti, è quello che sono.

mercoledì 7 ottobre 2009

Passo passo

Oggi sono andata di nuovo a Medicina, per vedere che tipo di mansione mi attenderebbe in caso decidessi per il sì. Non che mi aspettassi la gloria, ma solo di non avere più a che fare con i soldi.
Mi vede il preside, mi blocca e mi informa accorato del fatto che il loro sito va a rotoli: ci vorrebbe una persona che raccogliesse le varie informazioni dai vari docenti, che li sollecitasse e poi che organizzasse il tutto anche per fare la Guida dello Studente. Una persona magari con un corso di Manager Didattico alle spalle. Una persona che abbia dimestichezza con il computer e il web. Una persona come me, insomma.
Troppo bello per essere vero. Ma non svegliatemi subito, per favore.

martedì 6 ottobre 2009

L'invenzione della privacy

Stamattina, tra una cosa di lavoro e l'altra, ho letto una segnalazione di Lorenza. È una riflessione su un'intervista a Carol Topolski, uscita sul Giornale.
Di questa intervista delirante (o manipolata in modo delirante dalla giornalista), mi è rimasto impresso un concetto: la privacy sarebbe una delle cause della chiusura e dell'isolamento delle famiglie. Un po' la solita storia che si stava meglio quando si stava peggio, e un bambino lo cresce il villaggio, e che figata le famiglie allargate di una volta.
Ora, fermiamoci un attimo.
Immaginiamo una donna di 60 anni fa, tipo mia nonna ma non mia nonna (lei era di un'altra pasta). Una donna allevata con l'idea di essere docile e sottomessa. Si sposa e il marito la porta in casa dei genitori. Lei lavora e la suocera le sequestra lo stipendio, ché allora usava così. Lei lavora e la suocera le tiene il bambino, perché tanto è l'erede della famiglia, mica un bene personale. Lei si compra un abito o un paio di scarpe e la suocera sempre lì a guardare quanto ha speso o quanto è "decente" ciò che indossa. Lei e il marito discutono e c'è sempre qualcuno di estraneo alla coppia a giudicare. Questa è la famiglia allargata di cui parla l'ineffabile sociologa, dove le donne lavoravano comunque ma nessuno se ne accorgeva perché non davano fastidio.
Poi, per carità, ti poteva capitare un marito con una famiglia di persone gentili e buone, ma la convivenza porta quasi sempre a tirare fuori il peggio di chiunque.
E ora immaginiamo noi stessi, il modo in cui viviamo oggi. Pensiamo che non dobbiamo rendere conto a nessuno del nostro stipendio, nemmeno a nostro marito se decidiamo di dividere le spese a metà (noi, che siamo dei poveracci da 1000 euro al mese, abbiamo il conto in comune per comodità). Pensiamo che, se la suocera ci sta antipatica, almeno se ne sta a casa sua (e a svariate centinaia di km, se siamo persone particolarmente accorte). I nidi e le babysitter costano un botto, è vero (a me lo dite?), ma ci liberano dal ricatto psicologico di certi nonni. Se discuto con mio marito, già mi dà fastidio il coro dei figli ("perché litigate?" "non stiamo litigando, stiamo discutendo"), figurati se ci fosse qualcun altro a godersi lo spettacolo e fare il tifo.
La sociologa argomenta che questa eccessiva privacy in famiglia è causa di depressione post partum e sensi di inadeguatezza nelle madri, perché si chiudono in casa e non si possono confrontare col resto del mondo. A me sembra che le persone "deboli" non guadagnassero molto dall'essere in famiglie allargate, che le separavano dal mondo e le nascondevano per vergogna: non dimentichiamo che la depressione fino a non poco tempo fa era considerata una vergogna, come del resto una qualsiasi malattia mentale.
Ricordo ancora che la madre di una mia amica delle medie, che aveva passato un periodo di depressione quando sua figlia era piccola, era additata come "la pazza" a quasi 10 anni di distanza da quegli episodi e mi veniva indicata come una persona con cui stare attenti (non nel senso di usarle particolare gentilezza o delicatezza).
Invece una mia amica, che 7 anni fa ha avuto un episodio decisamente tosto di depressione post partum (con tanto di supporto medico, per intenderci), ha una vita sociale normalissima e non mi risulta che nessuno la eviti o le parli dietro per via della depressione.
A me la privacy piace. Sono contenta che mia madre non sia corsa qui a farmi vedere come avrebbe fatto lei ogni cosa, l'ho considerato un segno di rispetto. Sono contenta di poter allevare i miei figli nel modo che dico io (dove "io" significa "io e Luca"), con minime interferenze da parte dell'esterno. Sono contenta di poter manifestare i miei sentimenti senza dover pensare a cosa dirà mia suocera (che peraltro è una donna stupenda, sono anche fortunata). Sono contenta soprattutto di poter girare in casa in mutande (o senza) senza dover pensare al senso del pudore di qualcun altro che non sia mio marito e i miei bambini.
Non credo che una minore privacy mi avrebbe sostenuta nei momenti no di questi anni. Una madre (più di un padre, mi dispiace ma anche in questo non c'è parità) è già una femme publique dei sentimenti, deve aprirsi il petto e mostrare ciò che prova a tutto il mondo. Io penso che, in una situazione sana, un po' di privacy in più non possa che far bene alle madri. E in una situazione patologica? Penso che privacy non significhi omertà, e che sia compito dei familiari (del marito in particolare) accorgersi che una donna sta male.
Del resto, noi donne lo facciamo da sempre: scrutiamo gli umori e i comportamenti di chi amiamo, avvertiamo i campanelli d'allarme, cerchiamo di vederci chiaro quando qualcosa non ci convince (a costo di passare per le solite rompicoglioni). È ora di spartirci con gli uomini anche questo compito.

lunedì 5 ottobre 2009

Sviluppi imprevisti

Oggi sono andata a parlare con la presidenza di Medicina per quel posto che mi era stato ventilato. Inaspettatamente, l'impressione è stata buona: il preside mi sembra una persona concreta e sveglia (ed è interessato al mio corso di Manager Didattico), le colleghe sono due mamme "che ci sono già passate", la ragazza che se ne vorrebbe andare lo fa per tornare in un posto dove si era trovata particolarmente bene. E le responsabilità? Derivano dal fatto che sarei la sola a saper fare (e a dover fare) un certo inserimento dati in un certo database. Ma senza tempi forzati, senza pressioni, senza essere insostituibile tutti i giorni della mia vita. Soprattutto, mi hanno garantito che le scadenze sono annunciate da lungi, quindi ci si organizza perfettamente.
Insomma, sommando a questo il fatto che il preside vuole un manager didattico e ce l'avrebbe già lì, sembra un posto ideale. Ci sarà la magagna da qualche parte? Spero di no. Vediamo se la ruota torna a girare.

sabato 3 ottobre 2009

L'abito non fa la monaca

Ho un rapporto altalenante con la moda: senza essere mai stata modaiola all'estremo, ho avuto periodi in cui l'ho seguita e altri in cui mi sono proprio estraniata.
Da ragazzina, ero in un giro che sì, si vestiva con cose appropriate al proprio tempo, ma niente del tipo "devo assolutamente avere quel modello di scarpe di quella marca". A quei tempi (sembra un'altra era e forse lo è) Benetton, Stefanel e Sisley erano marche ancora abbastanza popolari: si prendevano uno o due maglioni a stagione, uno o due paia di pantaloni / jeans e un paio di scarpe "da tutti i giorni" ogni due anni. In estate magari qualcosa di più.
Dopo essere stata vestita al mercato per tutta la mia infanzia, rifiutavo ogni cosa che venisse da una bancarella, perché mi sembrava "da sfigata".
Verso la fine del liceo - inizio dell'università, la presenza degli stockisti e dei mercati più belli (quello di Pavia è la morte civile) mi ha un po' sdoganato la roba da bancarella, ma senza cambiare sostanzalmente lo stile: anonimo, noioso, persino da "vecchia". Del resto, stavo con uno più vecchio di me di 14 anni, non dimentichiamolo.
Rotto il fidanzamento, ho cominciato la mia allegra vita da single: un'uscita diversa ogni sera, tanti locali fighetti, e di giorno un lavoro che spesso mi portava a contatto con i clienti. Ero anche parecchio dimagrita grazie alla danza, ero proprio in forma. Quindi mi compravo con piacere (sempre in saldo o in stock) abiti anche un po' elegantini, scarpe con tacchi oggi improponibili, borsette di rappresentanza.
La mia metamorfosi è cominciata quando mi sono accorta che le calze di nylon mi davano troppo fastidio: ho cominciato a mettere gonne lunghe, ma sempre abbinandole a qualcosa di classico. Poi sono andata a lavorare in un ambiente molto rilassato, dove i clienti non si vedevano mai. Infine, il colpo di grazia me l'ha dato una caduta con storta (verificatasi il giorno prima di conoscere Luca) che mi ha obbligata alle scarpe basse per mesi.
Certo, quando sono venuta ad abitare in cascina, ogni tanto ho cercato di rimettere i tacchetti di prima, ma sai che bello affondare nella terra col tacco a spillo? Tanto più che, nel mio ambiente di lavoro, prevaleva uno stile informale e le scale si sprecavano.
La prima gravidanza ha scatenato definitivamente il mio gusto per l'etnico: mi sono comprata vestitoni, caftani (uno turco, bellissimo, durante il viaggio di nozze), camicioni (due coloratissime casacche indiane degli anni '70, alla fiera di Sinigaglia), abiti a vita alta (che mi sono sempre piaciuti).
Dopo la nascita di Amelia, a poco a poco, mi sono sempre più spostata sui pantaloni (soprattutto in inverno), per ragioni pratiche: non potevo permettermi di inciampare nella gonna con la bambina in braccio. In quell'epoca, cominciava la moda milanese di mettersi i vestitini sopra i pantaloni o i jeans, e io l'ho adottata. Mi piace tuttora: ai miei occhi, è un'evoluzione del concetto di caftano, che ti permette di "far durare di più" gli abiti estivi.
Oggi, complici le catene di abbigliamento low cost, il mio abbigliamento tipico è pantaloni o jeans, abitino o maglietta lunga sopra e scarpe basse (ballerine o scarpe da ginnastica o polacchine). Non metto più calze di nylon e nessuna gonna che non sia lunga fino ai piedi, con sotto i calzettoni.
In questo periodo, in cui sto facendo colloqui per il lavoro e sto cercando di incontrare professionisti nel settore dell'editoria per Viola, mi chiedo spesso che cosa può pensare la gente di me, vedendomi vestita così. Mi chiedo se percepiscono sciatteria (ma spero di no, perché gli accostamenti di colore sono fatti sempre con cura e i gioielli che metto, pur etnici, non sono mai banali) oppure rilassatezza. Mi chiedo se saranno portati a sottovalutarmi, a vedere in me solo una madre ingrassata che ormai non sopporta abiti stretti.
Da un lato, non mi dispiace essere sottovalutata: mi permette di stupire, quando apro bocca. Chi non mi conosce non si aspetta che questa donnina rotondetta, che si veste H&M e Decathlon, abbia una cultura così vasta e idee ben chiare su ciò che vuole fare. Molti pensano che chi è rampante dentro lo debba essere anche fuori, ed è un grandissimo sbaglio (non solo nel mio caso).
Dall'altro lato, essere sottovalutata è un rischio: spesso l'interlocutore si appiattisce sul giudizio che ha dato a prima vista, superficialmente, e non ti permette di convincerlo del contrario, perché non approfondisce neanche un minimo. Penso di aver perso almeno un'occasione di lavoro per non essermi presentata in tailleur (ma comunque elegante, mica in tuta!). Ma penso anche che una ditta che ti giudica sulla base di una giacca non messa non meriti neanche tutta questa attenzione.

giovedì 1 ottobre 2009

Costi e benefici

Chi mi conosce lo sa: anche se dico peste e corna del lavoro di imprenditore (nel senso che le soddisfazioni troppo raramente compensano i sacrifici), io sarei continuamente tentata dall'idea di mettermi in proprio, esplorare il mercato alla ricerca di occasioni, cercare e ideare progetti seguendo le mie intuizioni. Per fortuna mi trattiene il lato economico: prosaicamente, non ho il sedere abbastanza parato.
Ammiro le persone che hanno il coraggio di buttarsi, soprattutto le donne, ma spesso mi chiedo se ne valga la pena. Non in tutti i casi (a volte l'imprenditoria è l'unico modo per conciliare maternità e lavoro in modo dignitoso). Ma in alcuni sì.
Vi faccio un esempio. Il nido di Ettore (ex di Amelia) è gestito da una famiglia di due persone con tre figli di 15, 13 e 4 anni. Questa famiglia abita nello stesso cortile del nido: praticamente si trattava di una specie di cascinetta e il nido è stato ricavato al piano terra del fienile. Oltre al nido, gestiscono anche una associazione di arti marziali, nella quale lui insegna (è campione del mondo di non so quale disciplina e vicecampione in un'altra). L'associazione è la stessa per cui io ho insegnato danza (ora non più, ché mi sono un po' sfracellata un ginocchio) e accoglie anche altre discipline: step e aerobica, tai-chi, yoga. Il risultato è che il marito lavora anche tutte le sere, in sede o presso altre palestre, e comunque lo stabile del nido è occupato tutte le sere. La moglie, oltre a frequentare uno o più corsi dell'associazione, è arbitro di gara sempre nel settore delle arti marziali. Nel weekend organizzano presso il nido feste per bambini. Ora hanno aperto un altro nido in un altro paese, ad almeno mezz'ora da casa (per stradine di campagna - non vi dico quando c'è la nebbia), e immagino che anche lì ci siano attività serali e collaterali.
Sono persone di successo, che si fanno un culo così dalla mattina alla sera. Il fatto è che non mi sembra che ne valga poi tanto la pena.
Lasciamo da parte il fatto di non avere tempo (a momenti neanche per fare l'essenziale, figurarsi quello libero): so per esperienza che ci sono persone che godono nel lavorare e se ne fregano del tempo libero.
Quello che non capisco è come possano accettare di non avere tempo da dedicare ai figli. I più grandi sono in una fase delicata (e quello di 15 anni ha già preso le sue belle derive), mentre il piccolo è in grossa crisi (l'anno scorso ha avuto problemi con l'inserimento alla materna fino alla fine dell'anno). Non credo che ci siano grandi problemi di fondo: penso solo che si siano accorti che i genitori non hanno tempo per loro.
E qui mi chiedo: OK che stai lavorando anche per dar loro una stabilità economica e tutto il resto, ma che cosa ti resterà se, mentre tu eri impegnato a lavorare, i tuoi figli sono diventati degli estranei?
Attenzione: non è un discorso contro i genitori che lavorano, ma contro quelli che lavorano troppo. Padri e madri, perché è ora di finirla di giustificare i padri che lavorano fino a tardi e anche nel weekend: vorrei vedere, se i ruoli fossero invertiti, come si scatenerebbe l'opinione di coloro che si ritengono in diritto di giudicare.
Per carità, io stessa ho amiche con mariti part-time. Io non lo accetterei, loro invece hanno trovato un equilibrio e sono contenta per loro. Ma si tratta di persone che compensano l'assenza dei mariti con la propria presenza, che non sentono l'esigenza di realizzarsi a loro volta con un lavoro così impegnativo.
Io stessa dico spesso che non mi dispiacerebbe tornare ai ritmi e alla passione dei primi tempi in cui lavoravo. Purché lo stipendio sia adeguatamente alto da permettere a mio marito di stare a casa e occuparsi dei bambini (e lo farebbe, oh, se lo farebbe: già lo vedo a inventarsi laboratori di ceramica e caseificazione, e magari guadagnarci pure un pochino).
Ma poi, vi dico la verità: quando alla sera facciamo il gioco del "qual è la cosa più bella che hai fatto oggi?", a me nel 90% dei casi viene in mente qualcosa che ho fatto con i miei figli.
Per esempio: lunedì, dopo il lavoro, sono andata a trovare un'amica che non vedevo da un po' e sono andata alla prima lezione di danza per vedere se ce la facevo nonostante il ginocchio. Sono tornata a casa e ho trovato Ettore che mi aspettava con la porta aperta, perché lui e Luca (Amelia era da mia mamma) avevano sentito la mia macchina e mi avevano aperto.
Ve lo devo dire qual è stato il momento più bello della mia giornata?